Ci sono delle volte che esci di casa tranquillo, sperando di fumarti una sigaretta camminando sotto il cielo ormai scuro delle nove di sera, e invece giri l’angolo e trovi la guerra. Abito a Cambridge, che già è un compromesso per me, che dopo una vita a Milano e nove anni a New York mi sembra di essere in Brianza, visto che non è che una cittadina. Centomila abitanti, quasi tutti plurilaureati, trilingue, politically correct e gay. In poco spazio ci sta dentro di tutto, anche la multa con dietro le istruzioni yoga per rilassarsi. Anche il sindaco fricchettone, islamico, nero e gay. Questa cittadina, separata da Boston dal fiume Charles, è divisa in parecchie zone, che si sviluppano attorno a cinque piazze. Harvard square è la più pittoresca, per via che c’è l’università e la gente ricca ma che ama il prossimo. Poi c’è anche Kendall square, la piazza dell’MIT, università prestigiosa, con Chomsky che insegna e tutti i geni under ventuno del mondo.Tra le due c’è la mia, Central square, che invece di università e intellettuali, ha dei bellissimi barboni che si spaparanzano sulle panchine a bere la birra dalla bottiglia nascosta nel sacchettino di carta. Sono sporchi, quasi sempre barbuti, immancabilmente ubriachi. Ma anche loro hanno la loro dignità tipica di Cambridge: non fanno mai commenti ai passanti, chiedono l’elemosina ma anche se non la dai ti ringraziano, hanno quasi tutti la giacca. Insomma, sono barboni di classe, barboni aristocartici.Da Central square parte una strada che si chiama Magazine, che è come un’arteria da cui si diramano dei piccoli capillari, che sono le viette pittoresche con casette in legno colorate, giardini ben tenuti, parchi e parchetti. Uno dei capillari è Prince street, dove abito io da cinque anni. È una vietta a senso unico lunga soltanto un isolato. Le case sono bellissime: una è gialla, una è verde scuro, la nostra è blu, poi ce ne sono di bianche appena ristrutturate, vendute a famiglie benestanti per cifre astronomiche. Ci si conosce un po’ tutti, a Prince street. All’angolo ci abita una coppia lesbica, la prima degli Stati Uniti a sposarsi. Hanno un cane bianco, tipo barbonicno, uno stronzo pazzesco, che la Lola, il mio boxer (anche lei stronza) sogna di farne un kebab. Poi ci sono Michael e sua moglie, che hanno una figlia punk che quasi si è ammazzata in moto due mesi fa. Vicino a noi c’è Ray, che fa il compositore e lavora a uno dei college della zona; poi Ruth, la nuova inquilina, che fa la giornalista. Di fronte una coppia di medici: pare che lei sia una rinomata studiosa di malattie infettive, e infatti tutta la famiglia passa parte dell’anno in varie parti del mondo. Quando sono qui suonano il violoncello, il piano e il violino. Ci sono poi John e Cate: lui parla bene italiano perché ha vissuto a Verona per anni. Adesso è editore in una grande casa editrice che pubblica solo libri di giurisprudenza e lei lavora all’MIT. Poi c'è Cecilia, milanese come me, che è ricercatrice, sposata con Giovanni, che lavora a Harvard.Abbiamo anche i nostri proletari: vivono tutti al numero 12, nel palazzo di mattoni. Sono i neri e gli ispanici che ci aiutano a essere politically correct, perché anche noi possiamo andare in giro a dire che viviamo in mezzo a delle minoranze, e che accettiamo con piacere ogni tipo di gente. Alcuni, i più sfigati, sono di Haiti, e parlano creolo. Poi c’è Harrold, l’afroamericano alto alto che giocava a basket, ma poi suo fratello ha ammazzato la moglie e si è suicidato davanti alle gemelline, e lui ha mollato la carriera e ha adottato le nipoti. Perché abbiamo anche storie drammatiche, da film, qui in Prince street. All’angolo c’è un negozietto, che vende di tutto, dai cerotti alla bomba atomica. È l’unico negozio a Magazine street, e infatti è più caro di Tiffany, e spesso vende uova e latte scaduti. I commessi sono del Bangladesh, e sono sempre fuori a fumare, a salutare i loro clienti.In poche parole, Prince street è il posto meno pericoloso che si possa immaginare: non succede quasi mai niente. Una o due volte l’anno qualcuno ruba una bicicletta, e tutti bisbigliano inorriditi chiedendosi dove andrà a finire l’umanità. L’anno scorso mi hanno rotto il vetro della macchina, senza però rubare niente, perché già lo avevano rotto, e non volevano esagerare, non volevano ferirmi fino a quel punto. Mi sono stupita che non mi avessero lasciato un bigliettino di scuse, o un fiore. Villani. Quando verso le dieci di sera esco a portare i cani, dunque, apro la porta che sono tra le nuvole, senza minimamente pensare di dover affrontare nessun tipo di problema. Oggi è stata una giornata difficile: sono arrivata ieri sera da Becket, dove ho passato tre giorni con la mia amica Cristina, io e lei da sole, senza marmocchi o rotture di coglioni. E stamattina, Dan mi ha dato il suo bel bacio schioccante ed è uscito di casa alle otto, lasciandomi tre ragazzini in mutande e due cani da pisciare.Ho preso in mano la situazione in modo efficiente e competente: ho preparato colazioni, ho cambiato lenzuola a tanti letti, ho aiutato a far docce, a lavar denti. Ho fatto la spesa, i bucati. Sono andata con Luca a comprare dei vestiti per lui, ho tenuto tre amici di Emma, che con lei hanno distrutto la casa ridendo come dei pazzi, fino a quando il maschio è venuto da me piangendo a dirmi che Emma voleva chiudersi nell’armadio a muro con lui e baciarlo, ma lui non voleva. Ho preparato cene, fatto cucine, ribaciato Dan che andava a giocare a poker con degli amici, messo a letto i bimbi. Mi mancava solo di portare fuori i cani prima di sedermi a cazzeggiare nella dolce penombra della sala silenziosa e perfettamente messa a posto.Canto tre canzoni a Emma, aiuto Luca a prepararsi per la notte, chiacchiero due minuti con Sofia, prendo i due guinzagli e apro la porta, dopo aver messo le mie sigarette e l’accendino in tasca.Sono finalmente fuori casa. La serata è magica: la luce del lampione si rispecchia sulla strada vuota, le luci dalle finestre delle case mi ricordano le casette dei presepi. C’è silenzio, armonia. Faccio sempre lo stesso giro: uscendo di casa vado a destra, verso il negozietto, faccio la curva e vado dritta per un paio di isolati, nella speranza che i cani si impegnino e facciano quello che devono fare. Se fanno i testardi, allora faccio anche tutto il giro dell’isolato.Come sempre, dunque, esco di casa e mi incammino verso il negozietto. I cani non tirano; io guardo le stelle, che non si vedono. Ravano nella tasca e cerco una sigaretta, che mi metto in bocca; rimetto la mano in tasca per prendere l’accendino. Ormai sto per girare l’angolo.La lesbica, ignara come me, sta per girare lo stesso angolo con il suo barboncino bianco stronzo; la Lola li vede prima di me, tipo Houdini si svincola dal collare e si lancia verso la giugolare. La lesbica comincia ad urlare, io ancora di più: mi butto sulla Lola, che però si scansa e cerca disperatamente sangue. Nel mio goffo tentativo di dividere le due belve cado per terra, e i miei zoccoli volano in aria. La tipa urla, i cani si scannano. Finalmente riesco a prendere la Lola per la pelle. La vorrei ammazzare. Vorrei che a questo punto un bel camion arrivasse e la appiattisse tipo tombino. Mi farebbe solo piacere. Invece passa un ciclista che guarda la scena ma non si ferma. La lesbica e il cane, fortunatamente illeso, se ne vanno. Ho il fiatone, mi rialzo ma non riesco a stare dritta. Un tipo viene da me e mi chiede se va tutto bene. Dico di si, per essere succinta. Sono a piedi nudi. Noto che mi sanguina la caviglia.Vado a riprendere le scarpe e il guinzaglio e lo metto alla Lola: anche lei ha il respiro veloce, la lingua molle che le esce dal lato della bocca. Piano piano mi riprendo. Nella lotta mi accorgo di aver perso l’accendino. Torno sul luogo del fattaccio e lo trovo vicino a una vomitata secca. Cazzo me ne frega. Lo raccolgo e mi accendo la sigaretta che durante tutto questo periodo avevo tenuta stretta tra i denti. Continuo per la mia strada, con la caviglia sanguinante e l’anca destra che mi fa male.Cambridge di merda, mi dico raccogliendo la cagata calduccia che nel frattempo la Lola aveva fatto, da brava.
Ci sono delle volte che esci di casa tranquillo, sperando di fumarti una sigaretta camminando sotto il cielo ormai scuro delle nove di sera, e invece giri l’angolo e trovi la guerra. Abito a Cambridge, che già è un compromesso per me, che dopo una vita a Milano e nove anni a New York mi sembra di essere in Brianza, visto che non è che una cittadina. Centomila abitanti, quasi tutti plurilaureati, trilingue, politically correct e gay. In poco spazio ci sta dentro di tutto, anche la multa con dietro le istruzioni yoga per rilassarsi. Anche il sindaco fricchettone, islamico, nero e gay. Questa cittadina, separata da Boston dal fiume Charles, è divisa in parecchie zone, che si sviluppano attorno a cinque piazze. Harvard square è la più pittoresca, per via che c’è l’università e la gente ricca ma che ama il prossimo. Poi c’è anche Kendall square, la piazza dell’MIT, università prestigiosa, con Chomsky che insegna e tutti i geni under ventuno del mondo.Tra le due c’è la mia, Central square, che invece di università e intellettuali, ha dei bellissimi barboni che si spaparanzano sulle panchine a bere la birra dalla bottiglia nascosta nel sacchettino di carta. Sono sporchi, quasi sempre barbuti, immancabilmente ubriachi. Ma anche loro hanno la loro dignità tipica di Cambridge: non fanno mai commenti ai passanti, chiedono l’elemosina ma anche se non la dai ti ringraziano, hanno quasi tutti la giacca. Insomma, sono barboni di classe, barboni aristocartici.Da Central square parte una strada che si chiama Magazine, che è come un’arteria da cui si diramano dei piccoli capillari, che sono le viette pittoresche con casette in legno colorate, giardini ben tenuti, parchi e parchetti. Uno dei capillari è Prince street, dove abito io da cinque anni. È una vietta a senso unico lunga soltanto un isolato. Le case sono bellissime: una è gialla, una è verde scuro, la nostra è blu, poi ce ne sono di bianche appena ristrutturate, vendute a famiglie benestanti per cifre astronomiche. Ci si conosce un po’ tutti, a Prince street. All’angolo ci abita una coppia lesbica, la prima degli Stati Uniti a sposarsi. Hanno un cane bianco, tipo barbonicno, uno stronzo pazzesco, che la Lola, il mio boxer (anche lei stronza) sogna di farne un kebab. Poi ci sono Michael e sua moglie, che hanno una figlia punk che quasi si è ammazzata in moto due mesi fa. Vicino a noi c’è Ray, che fa il compositore e lavora a uno dei college della zona; poi Ruth, la nuova inquilina, che fa la giornalista. Di fronte una coppia di medici: pare che lei sia una rinomata studiosa di malattie infettive, e infatti tutta la famiglia passa parte dell’anno in varie parti del mondo. Quando sono qui suonano il violoncello, il piano e il violino. Ci sono poi John e Cate: lui parla bene italiano perché ha vissuto a Verona per anni. Adesso è editore in una grande casa editrice che pubblica solo libri di giurisprudenza e lei lavora all’MIT. Poi c'è Cecilia, milanese come me, che è ricercatrice, sposata con Giovanni, che lavora a Harvard.Abbiamo anche i nostri proletari: vivono tutti al numero 12, nel palazzo di mattoni. Sono i neri e gli ispanici che ci aiutano a essere politically correct, perché anche noi possiamo andare in giro a dire che viviamo in mezzo a delle minoranze, e che accettiamo con piacere ogni tipo di gente. Alcuni, i più sfigati, sono di Haiti, e parlano creolo. Poi c’è Harrold, l’afroamericano alto alto che giocava a basket, ma poi suo fratello ha ammazzato la moglie e si è suicidato davanti alle gemelline, e lui ha mollato la carriera e ha adottato le nipoti. Perché abbiamo anche storie drammatiche, da film, qui in Prince street. All’angolo c’è un negozietto, che vende di tutto, dai cerotti alla bomba atomica. È l’unico negozio a Magazine street, e infatti è più caro di Tiffany, e spesso vende uova e latte scaduti. I commessi sono del Bangladesh, e sono sempre fuori a fumare, a salutare i loro clienti.In poche parole, Prince street è il posto meno pericoloso che si possa immaginare: non succede quasi mai niente. Una o due volte l’anno qualcuno ruba una bicicletta, e tutti bisbigliano inorriditi chiedendosi dove andrà a finire l’umanità. L’anno scorso mi hanno rotto il vetro della macchina, senza però rubare niente, perché già lo avevano rotto, e non volevano esagerare, non volevano ferirmi fino a quel punto. Mi sono stupita che non mi avessero lasciato un bigliettino di scuse, o un fiore. Villani. Quando verso le dieci di sera esco a portare i cani, dunque, apro la porta che sono tra le nuvole, senza minimamente pensare di dover affrontare nessun tipo di problema. Oggi è stata una giornata difficile: sono arrivata ieri sera da Becket, dove ho passato tre giorni con la mia amica Cristina, io e lei da sole, senza marmocchi o rotture di coglioni. E stamattina, Dan mi ha dato il suo bel bacio schioccante ed è uscito di casa alle otto, lasciandomi tre ragazzini in mutande e due cani da pisciare.Ho preso in mano la situazione in modo efficiente e competente: ho preparato colazioni, ho cambiato lenzuola a tanti letti, ho aiutato a far docce, a lavar denti. Ho fatto la spesa, i bucati. Sono andata con Luca a comprare dei vestiti per lui, ho tenuto tre amici di Emma, che con lei hanno distrutto la casa ridendo come dei pazzi, fino a quando il maschio è venuto da me piangendo a dirmi che Emma voleva chiudersi nell’armadio a muro con lui e baciarlo, ma lui non voleva. Ho preparato cene, fatto cucine, ribaciato Dan che andava a giocare a poker con degli amici, messo a letto i bimbi. Mi mancava solo di portare fuori i cani prima di sedermi a cazzeggiare nella dolce penombra della sala silenziosa e perfettamente messa a posto.Canto tre canzoni a Emma, aiuto Luca a prepararsi per la notte, chiacchiero due minuti con Sofia, prendo i due guinzagli e apro la porta, dopo aver messo le mie sigarette e l’accendino in tasca.Sono finalmente fuori casa. La serata è magica: la luce del lampione si rispecchia sulla strada vuota, le luci dalle finestre delle case mi ricordano le casette dei presepi. C’è silenzio, armonia. Faccio sempre lo stesso giro: uscendo di casa vado a destra, verso il negozietto, faccio la curva e vado dritta per un paio di isolati, nella speranza che i cani si impegnino e facciano quello che devono fare. Se fanno i testardi, allora faccio anche tutto il giro dell’isolato.Come sempre, dunque, esco di casa e mi incammino verso il negozietto. I cani non tirano; io guardo le stelle, che non si vedono. Ravano nella tasca e cerco una sigaretta, che mi metto in bocca; rimetto la mano in tasca per prendere l’accendino. Ormai sto per girare l’angolo.La lesbica, ignara come me, sta per girare lo stesso angolo con il suo barboncino bianco stronzo; la Lola li vede prima di me, tipo Houdini si svincola dal collare e si lancia verso la giugolare. La lesbica comincia ad urlare, io ancora di più: mi butto sulla Lola, che però si scansa e cerca disperatamente sangue. Nel mio goffo tentativo di dividere le due belve cado per terra, e i miei zoccoli volano in aria. La tipa urla, i cani si scannano. Finalmente riesco a prendere la Lola per la pelle. La vorrei ammazzare. Vorrei che a questo punto un bel camion arrivasse e la appiattisse tipo tombino. Mi farebbe solo piacere. Invece passa un ciclista che guarda la scena ma non si ferma. La lesbica e il cane, fortunatamente illeso, se ne vanno. Ho il fiatone, mi rialzo ma non riesco a stare dritta. Un tipo viene da me e mi chiede se va tutto bene. Dico di si, per essere succinta. Sono a piedi nudi. Noto che mi sanguina la caviglia.Vado a riprendere le scarpe e il guinzaglio e lo metto alla Lola: anche lei ha il respiro veloce, la lingua molle che le esce dal lato della bocca. Piano piano mi riprendo. Nella lotta mi accorgo di aver perso l’accendino. Torno sul luogo del fattaccio e lo trovo vicino a una vomitata secca. Cazzo me ne frega. Lo raccolgo e mi accendo la sigaretta che durante tutto questo periodo avevo tenuta stretta tra i denti. Continuo per la mia strada, con la caviglia sanguinante e l’anca destra che mi fa male.Cambridge di merda, mi dico raccogliendo la cagata calduccia che nel frattempo la Lola aveva fatto, da brava.
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