Un mare di persone, una manifestazione dai numeri incredibili, Barcellona e tutta la Catalogna è scesa in strada a chiedere l’indipendenza in occasione dell’ 11 settembre, giorno nel quale, esattamente 301 anni fa questa regione perse l’indipendenza. Milioni di persone anche in vista delle elezioni regionali del 27 settembre dal cui esito potrebbe dipendere l’inizio del cammino verso l’indipendenza effettiva: infatti il ritorno anticipato alle urne è un surrogato di un referendum impedito dai neo franchisti di Madrid tramite Corte costituzionale.
La situazione catalana è molto complessa e richiederebbe molti post a se stanti, ma non c’è dubbio che la convergenza sullo stesso obiettivo dei conservatori tradizionalisti del Ciu e della sinistra repubblicana di Erc, senza parlare dell’indipendentismo della sinistra radicale anticapitalista del Cup o del separatismo moderato delle formazioni locali che fanno riferimento a Podemos e ai Verdi, la dice lunga sulla mutazione politica che si è avuta dopo la crisi e la scoperta della natura oligarchica della governance europea. Mentre fino a quindici anni fa i vari secessionismi erano esclusivamente terreno delle destre conservatrice o dei reazionarismi più bizzarri e inattuali, adesso sono diventati terreno anche se non soprattutto delle sinistre, come dimostra la Scozia dove la richiesta di indipendenza corrispondeva anche una secessione dal blairismo del labour. Un messaggio forte che ha avuto come effetto l’elezione di Corbyn alla testa dei laburisti per una vera svolta a sinistra del partito. Il separatismo è diventato un modo per reclamare il recupero della democrazia oggi palesemente osteggiata dai centri finanziari e dai meccanismi europei (la Grecia insegna).
Non ha nessuna importanza se in Italia l’ambiente bonsai della sinistra tradizionale, soprattutto nella sua variante intellettuale tenta disperatamente di non comprendere anche questa novità, dopo essersi rifugiata in ogni possibile prefisso post, inventato appositamente per continuare a navigare nel laghetto di illusioni e collusioni, dopo aver sostituito i propri ideali col feticcio europeo il cui copyright è nel migliore dei casi liberale, mentre la gestione è affidata al liberismo. Del resto se è vero che dobbiamo liberarci delle piccole patrie, non si vede la ragione per cui esse debbano rimanere intangibili, come predicano le destre fasciste. Se dobbiamo rifiutare l’imperialismo non si vede perché affidarsi a un nuovo disegno imperialista, solo più grande come dimostra ampiamente la vicenda ucraina. E non si vede perché debba essere giusta la causa dei Curdi per ottenere una loro nazione, mentre a noi è negato rivendicare la sovranità persino sui momenti essenziali della cittadinanza e della scelta. Si tratta di contraddizioni che svelano la povertà di analisi e un’ideologia (si fa per dire) fatta di residuati giustapposti e non collegati da un’idea complessiva di società, disponibile a trasformare in vittoria qualsiasi resa per evitare di pensare. Lo dico da persona che per cultura e origini non ha alcuna pulsione identitaria.
Ad ogni modo è chiarissimo perché i poteri finanziari ed europei siano così ostili ai separatismi che teoricamente dovrebbero invece essere il correlato naturale di una governance continentale che trova ostacoli proprio negli egoismi nazionali: perché la creazione di una nuove entità fa cadere i trattati capestro, magari crea anche una nuova moneta, rinnova il senso di cittadinanza insomma si mette di traverso al disegno di sostituire la democrazia con le cosiddette leggi del mercato. In alcuni casi, come quello catalano, crea sintesi inaspettate, rimescola le carte. Ed è questo che Bruxelles, Berlino e Washington proprio non sopportano