Il marketing è un aggeggio davvero diabolico: necessario e fruttifero, certo, ma anche insidioso e infido. Per dire, prendete Joshua allora e oggi di Mordecai Richler. Pubblicato nel 1980 – diciassette anni prima dell’uscita de La versione di Barney; tradotto in Italia da Adelphi solo pochi mesi fa, Anno di Grazia 2013 – cioè dodici anni dopo la prima edizione italiana de La versione di Barney. Un sacco di tempo: abbastanza perché a quel punto in Italia, come del resto in tutto il mondo, Richler sia ormai perfetto sinonimo di Barney, e allora non c’è scelta: se vuoi vendere Joshua, devi partire da Barney, e presentare il primo come il “vero progenitore romanzesco di uno dei personaggi più amati degli ultimi anni”. Et voilà, les jeux sont faits! Joshua è il nuovo Barney, prendete e leggetene tutti! Tutti felici e contenti, quindi? Non proprio: perché più d’uno, chiuso il libro, ha dovuto ammettere che sì, ok, i due un po’ si somigliano, ma in fondo in fondo neanche tanto. Ci avevate promesso Barney, dove l’avete nascosto? Ed ecco l’insidia del marketing: spingerci a cercare nel libro una cosa che non c’è, finendo per fare uno sgambetto al romanzo stesso.
Che è un ottimo romanzo, intendiamoci, per un sacco di buone ragioni. Solo che con Barney Panofsky non c’entra quasi nulla.
La storia in breve? Un bel giorno Joshua Shapiro, giornalista sportivo e autore di un fortunato libro sulla guerra civile spagnola, si risveglia in un letto d’ospedale con un sacco di bende addosso, tutte le ossa fracassate, nessun ricordo di cosa gli sia capitato, la moglie sparita e le ombre di uno scandalo di natura omosessuale che minacciano di travolgerlo e da cui il padre ex pugile e il suocero ex senatore cercano a tutti i costi di proteggerlo. Nel tentativo di ricomporre i pezzi del puzzle della propria vita, Joshua ripercorre con la memoria la sua intera esistenza: dall’infanzia negli anni ’30 a St. Urbain Street ai viaggi in Europa tra Parigi, Londra e Ibiza, tra l’ambizione di diventare un giornalista e il bellicosissimo rapporto con la propria identità ebraica. Ci sono anche uno chalet sul lago, un mistero del passato su cui non si fa chiarezza fino alla fine, il necessario contorno di amici bislacchi, riti camerateschi e alcuni altri ingredienti che, presi in se stessi, sulle prime hanno fatto gridare a tutti noi all’unisono “BAR-NEY! BAR-NEY!”, e liquidare così più o meno l’intera faccenda. Solo che Joshua Shapiro ha, di suo, alcune peculiarità che sparigliano un po’ tutte le carte.
Il fatto è che Joshua è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno di Barney. Non vuole avere a tutti i costi l’ultima parola, non racconta la propria storia per convincerci della propria verità a scapito di quella degli altri. A essere precisi, non ci racconta proprio nessuna storia: la narrazione in prima persona che costituirà la cifra essenziale dell’Homo Barneyanus qui lascia il posto a una voce narrante (all’università la chiamerebbero “onnisciente”) che si incarica di raccontarci la vita di Joshua al posto suo, senza ambiguità e ipocrisie, e senza sconti per nessuno dei suoi protagonisti. Così gestito, il romanzo non è solo la storia di un uomo che ripercorre la propria esistenza cercando di giustificarsi per averla vissuta così. Diventa il racconto del grande mito ebraico-americano di rancori, rivalse, successi e cadute, integrazioni fallite; il tentativo doloroso di fare i conti con la propria identità, con le proprie origini, con il fardello di essere un membro del Popolo Eletto in un’epoca che sta mettendo in atto l’Olocausto, e poi ancora dopo, a guerra finita, quando i relitti del Nazismo – fallito ma mai obliterato – spuntano fuori qua e là con altri nomi, o nei panni di ex ufficiali rivestiti da romanzieri western sotto pseudonimo, o anche solo nella forma persistente di pregiudizi antisemiti incancellabili.
Il risultato è un romanzo intricato, contorto, ribollente, elaboratissimo, tanto giovanilmente incazzato quanto Barney – con i suoi sigari, il MacAllan, la grande casa vuota, l’Alzheimer – era cinico, disincantato e disilluso. Una ferita ancora aperta che non smette di fare male, e che il narratore tiene viva versandoci sopra sale a barili nello sforzo di capire come se la sia fatta.
Del resto, se Joshua non è ancora Barney, Richler è già pienamente Richler, con tutto il suo irresistibile disprezzo per le facili convenzioni di una narrazione lineare. E così ecco il testo narrativo disintegrarsi, lungo le linee contorte del tempo e della memoria, nell’equivalente di un gigantesco specchio infranto, che ancora conserva nei suoi mille frammenti l’immagine riflessa del proprio osservatore, ma la polverizza in tanti pezzi quanti ne richiede la complessità delle esperienze vissute. Il gioco dei salti temporali su e giù, avanti e indietro dai quattro diversi piani lungo i quali si snoda il racconto, realizza un frenetico e ininterrotto andirivieni da cui pian piano prende forma sotto i nostri occhi una storia della quale all’inizio non capiamo assolutamente nulla, ma la cui trama si dipana di pari passo con il crescere dello stesso personaggio che la vive. Un movimento narrativo parallelo che costruisce insieme storia e personaggio, affinando al tempo stesso la tecnica di racconto che sarebbe poi esplosa, diciassette anni dopo, con Barney.
Tirando le somme: Joshua Shapiro è il nuovo Barney Panofsky? No; e non è nemmeno il vecchio Barney, il Barney prima di Barney. Inutile cercare Barney in Joshua allora e oggi, è come aspettare Godot. Quella di Joshua è proprio un’altra storia, e va letta e goduta e soprattutto compresa per se stessa: una storia bruciante di lotte e rivalse, di mondi inconciliabili che si scontrano collidendo con il fragore di una cannonata, di ingiustizie impunite, di successi e fallimenti. Di cinismo? Un poco: ma un cinismo che non fa ancora ridere, perché la sua fonte arde ancora troppo viva in chi lo prova. Non chiedete a Joshua di farvi sbellicare con la storia della sua vita, perché lui è lì per prendervi a cazzotti in faccia. Quando li vedete arrivare, non spostatevi: i cazzotti tirati dai buoni libri fanno sempre bene.
Mordecai RichlerJoshua allora e oggi
Traduzione di Giovanna Ferrara degli Uberti
Adelphi
2013, 466, € 20,00