Bartleby lo scrivano è forse lo scritto più famoso di Herman Melville dopo quel Mody Dick da tempo entrato nei libri di scuola di tutto il mondo.
Un racconto di per sé piuttosto breve che però è diventato uno dei più discussi in assoluto della letteratura americana.
In questa edizione Feltrinelli la cosa che più mi ha colpito è stata la vastità delle interpretazioni che sono state date del racconto.
Si tratta di ben 88 piccole note riportate nel finale del libro e che a mio personalissimo parere non fanno che dimostrare due cose ben distinte:
la prima è che ciascuno può avere visioni, giudizi e chiavi di lettura diverse a seconda della propria esperienza e della propria capacità di immedesimarsi;
la seconda è che spesso i cosiddetti critici non sanno ciò che dicono.
Nelle decine e decine di commenti riassunti nel libro, le vicende che vedono protagonista il signor Bartleby e l’avvocato per lungo tempo suo datore di lavoro, hanno interpretazioni estremamente diversificate e lontano da qualsiasi logica comune.
Si passa perciò dal semplice significato autobiografico, con Bartleby che rappresenta Melville stesso alle prese con le proprie difficoltà di scrittura, al richiamo di quel filone di letteratura malinconica e senza via di scampo tipico di Cervantes, per arrivare a molti che vedono in questo racconto una chiara raffigurazione di Cristo nella figura di Bartleby, senza poi trascurare elementi tipici della lotta di classe tra lavoratore dipendente e datore di lavoro.
Assurdo tutto ciò?
Potrebbe anche essere, ciascuno si faccia la propria idea.
La mia è che molti di questi cosiddetti esperti vogliano forzatamente vedere cose anche quando non ci sono, come se ogni singola parola scritta in un libro fosse il risultato di profonde elaborazioni e ragionamenti originali.
A volte ciò può essere vero, ma spesso la realtà è molto più semplice.
Scivolando momentaneamente nel mondo del cinema, ecco un esempio di quanto dico:
qualche anno fa al termine della proiezione del film Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati, il critico cinematografico responsabile della serata introdusse il regista per il dibattito del dopo-proiezione, elogiando le sue decisioni sempre azzeccate ed originali, la sua fantasia ed il suo ruolo sempre più importante nell’ambito della rinascita del cinema italiano, facendo notare al pubblico, come esempio di quanto appena affermato, che nella la scena in cui il protagonista entra in un centro sociale giovanile, era stata messa una particolare canzone di un gruppo africano.
La scelta precisa di quella canzone aveva più motivazioni: l’atmosfera di lotta al potere ritenuto criminale, la crescita della cultura di un continente, quello africano, che cercava di farsi largo in un mondo ultra-competitivo che mai più si ferma ad aspettare i più deboli, la rabbia giovanile nei confronti di una società che i giovani li mette ai margini, ecc. ecc.
Il buon Mazzacurati, chiamato a rispondere di quella scelta secondo il critico tanto pensata e tanto analizzata, disse non senza imbarazzo nei suoi confronti, che non sempre ogni cosa viene scritta dopo un lungo pensare, ma spesso una scelta avviene in maniera casuale e del tutto naturale, per motivi molto semplici, quasi banali.
Nel caso di quella scena, Mazzacurati raccontò che prima di quel film lui non era mai entrato in un centro sociale giovanile e che quando ne visitò uno in preparazione del film, trovò una musica sconosciuta in sottofondo che a lui piacque molto.
Era un gruppo africano mai sentito nominare.
Ebbene, nel film decise di mettere la stessa musica ascoltata nella realtà per la bella atmosfera da lui captata durante quella visita.
Tutte le motivazioni politiche e sociali riportate dal critico un minuto prima, non avevano dopotutto nessun fondamento.
Tornando al nostro racconto su Bartleby, mi viene da dire che fra quella moltitudine di interpretazioni date dagli addetti ai lavori, una buona parte racchiuda in sé un qualcosa di esasperato che risente della voglia di stupire da parte del critico di turno.
Una specie di auto-celebrazione che si stacca dal racconto vero e proprio e che tende a vedere cose sempre più complicate e sempre più nascoste, invece che fare analisi semplici.
Per fortuna in nessuna delle interpretazioni si parla di messaggi nascosti, di esoterismo, di simboli e nessuno affianca Melville alla figura di Leonardo come possibile Gran Maestro dei tempi moderni.
Per ora almeno questo ci è stato risparmiato.
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