Tra le diverse tematiche avvicinate dal celebre e straordinario tatto dei fratelli Cohen, Barton Fink affronta il rapporto tra vita, arte e la solitudine dell’esperienza estetica, tema eterno della letteratura come del cinema, con cui la più straordinaria coppia di autori del cinema contemporaneo ha ottenuto il primo grande successo di critica delineando una storia vivida e grottesca, che si nutre di simboli celati con un ermetismo che non ha aiutato la pellicola ha ottenere un pari successo di pubblico, che ha a che fare con un film che non è né una commedia né un dramma, che vive di satira e scatta attraverso l’assurdo, cifra autoriale tra le più consolidate dei Cohen e a cui Barton Fink si abbandona con la grottesca progressione della trama.
Il protagonista infatti è un giovane commediografo ebreo che dopo aver riscosso il plauso unanime della critica di New York viene messo sotto contratto ad Hollywood come sceneggiatore di film senza alcuna pretesa estetica, mansione in cui il brillante autore in rampa di lancio si cimenta per compromesso, preparando così una pensione da intellettuale non oberato da preoccupazioni economiche. Barton Fink è tuttavia scettico davanti al dorato mondo che lo aspetta, temendo di smarrire così la propria cifra poetica e gli anni migliori dell’ispirazione narrativa, preoccupazioni che l’incontro con la caricaturale figura del produttore Wallace Beery e il suo entourage non potranno che rafforzare.
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