L’Africa d’Italia. Da Francesco Saverio Nitti a Rocco Papaleo, passando per Carlo Levi e la sua cronaca del mancato arrivo di Gesù Cristo, la Basilicata ha da sempre incarnato il lato più brado e selvaggio del Sud. Una terra sconosciuta, perfetta fusione di esoterismo, autenticità e tradizione. La terra dei briganti, coraggioso martirio contro l’invasore sabaudo, in una storia che affonda le radici in coincidenza con questo 2011, curiosamente festoso e celebrativo nei confronti dell’improvvisa necessità di un’ identità nazionale. Quella stessa identità che, in paradossale contrapposizione, sta progressivamente sciogliendosi sotto il cocente sole di organismi sovranazionali e potentati finanziari, lasciando scorci all’orizzonte piuttosto tenebrosi. Così, abituati a danzare nel circo globale (che poi globale non è), ci accorgiamo che il concetto verticale della politica sta prendendo il sopravvento sull’illusoria prospettiva orizzontale (destra, centro, sinistra) che ci ha accompagnato per tutto il Novecento. Il nuovo millennio ha aperto il sipario sull’era della schiacciante egemonia dei mercati finanziari e della corsa agli approvvigionamenti economici. Non che questi fattori non fossero ugualmente determinanti in passato: la differenza è che al giorno d’oggi l’arida necessità coniugata al presente non ha più bisogno di più o meno nobili ideali coniugati al futuro. E così accade che l’etica da bulldozer prevarichi i diritti del cittadino senza eccessivi rimorsi. Come in Lucania, appunto. Regione ricca e allo stesso tempo regione povera. La terra di passaggio, la terra di scarico, il luogo dove si può fare e disfare a proprio piacimento, godendo di quella magia da ‘terra di mezzo’ che rende ogni cosa lecita. La Lucania, la regione più trivellata d’Italia. La Lucania, il magazzino dei rifiuti tossici.

Tempa Rossa, ad esempio, è un giacimento petrolifero in espansione, situato nel cuore della regione, con impianti che permetteranno di trasformare gli idrocarburi estratti dai pozzi, affiancati da centri di stoccaggio del GPL.
Il poco confortante risultato sarà quello di aumentare lo sfruttamento di un’area che gode delle royalties più basse al mondo. La royalty è ciò che consente al titolare di una risorsa di ricevere adeguato compenso dallo sfruttamento della stessa. In poche parole, in Basilicata viene estratto petrolio senza che ciò porti un effettivo miglioramento nell’economia della regione. Tutt’altro: il paradosso lucano è quello che contrappone un’enorme ricchezza potenziale ad un’enorme povertà di fatto. Inoltre, i danni ambientali sono devastanti. Alle trivellazioni infatti (recentemente aperte anche nello Jonio), si aggiungono i depositi di rifiuti tossici, ovviamente abusivi, che contribuiscono a distruggere un ecosistema tra i più ricchi e incontaminati d’Italia. Un processo teso a inquinare risorse fondamentali come l’acqua. Un danno abnorme, se si considera che la Basilicata è ai primi posti per quanto riguarda le risorse idriche, sia a livello di potabilità che a livello di utilizzo agricolo: l’acqua lucana è anche quella che scorre in Puglia. La Basilicata è inoltre terra di fonti preziose (si pensi al Gruppo Traficante, proprietario dell’acqua ‘Lilia’, acquistato nel 2006 dal marchio CocaCola).

«I popoli dei paesi svilupati hanno capito che il senso civico è imperativo per il benessere economico di una città. Cioè si cresce insieme o non si cresce per niente. Non funziona avviare un attività lasciando il resto della città in uno stato di disagio economico. Fin quando ciascuno tirerà l’acqua al proprio mulino, la Lucania sarà sfruttata dai soliti baroni politici per i loro interessi personali. Dobbiamo decidere di aiutarci l’un l’altro ed esigere le cose che ci servono per il bene della nostra Regione. I politici ci rispetteranno solo quando ci faremo rispettare…quando saremo INFORMATI, ORGANIZZATI e UNITI. Ci vorrà un miracolo per discostarci dai vecchi schemi che ci hanno schiavizzato politicamente, socialmente ed economicamente».
Un’impresa che si annuncia ardua, considerando che la nostra Costituzione non approva referendum di tipo propositivo, ma solo referendum abrogativi, da sempre specchietti per le allodole. Una Costituzione che impedisce a questa terra di proclamarsi (avendone tutte le prerogative) a Statuto Speciale. Le regioni a Statuto Speciale sono quelle che tutti noi impariamo a memoria alle scuole elementari, ormai da decenni. Costerebbe fatica cambiare tutto, proprio adesso che le regioni non avranno più motivo di esistere, in nome della nuova mondializzazione. Quella che si rifiuta di opporre il pollice per afferrare di precisione, ma che preferisce brandire tutto, come in Africa: senza dare nulla in cambio, ma sempre con il sorriso stampato in faccia.
(Pubblicato su “Il Fondo – Magazine di Miro Renzaglia” del 19 settembre 2011)






