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Basta professori anche a sinistra

Creato il 05 gennaio 2013 da Albertocapece

Antonio-Ingroia-con-il-simbolo-di-Rivoluzione-civileFin dall’inizio dell’avventura del quarto polo mi è sembrato che si dovesse puntare a una decisa discontinuità col passato e dunque anche con quelle piccole elite superstiti della sinistra che erano state testimoni e protagonisti di una lunghissima e amara sconfitta. Che si dovesse ricominciare su basi nuove: dunque benvenuti gli apporti purché non fossero abbracci mortali e requisizione dei movimenti. Come si può vedere  qui il senso del discorso era che  nella nuova formazione, cammino, battaglia “tutti devono starci alla pari senza la pretesa di essere depositari della verità, ma con la volontà di essere custodi della speranza in una società alternativa e radicalmente differente”. 

Ma sono stato evidentemente un ingenuo perché certe modalità frazioniste, certe gelosie ideologiche, l’infaticabile progettazione di torri d’avorio non regna solo nei partitini, ma anche nei movimenti. Così dopo che Ingroia si è messo a capo del movimento ecco che i “professori” numi tutelari di “Cambiare si può” tra cui Marco Revelli, Paul Ginsborg e Livio Pepino si sono dimessi perché il progetto non più quello a cui loro avevano pensato e anche perché segretari e dirigenti di Pdci, Rifondazione, Idv, Verdi tentano la candidatura in Rivoluzione civile. E poi perché Ingroia sembra aver puntato soprattutto su un programma per la giustizia e la lotta alla criminalità piuttosto che contro il liberismo.

Tutto vero per carità, nulla da eccepire. Eppure mentre si combatte la battaglia dei distinguo, il liberismo è divenuto religione di stato, si è inaugurata una stagione di straordinaria iniquità, di impoverimento generale, di assalto alla Costituzione, al welfare, ai diritti del lavoro e senza una corposa formazione di sinistra vera in Parlamento, non sarà possibile mettere alcun argine a tutto questo. Non sarà nemmeno possibile parlare al Paese, incidere sulle sue mentalità e aspettative anche in ragione di un sistema mediatico che in pratica contempla solo cinque editori di riferimento. Ora mi domando: vogliamo svegliarci una buona volta?   Abbiamo la consapevolezza che chi perde il lavoro non sa che farsene dei capelli spaccati in quattro, dei parologismi di questo o di quello e in particolare di ideologi che sono col sedere al caldo? Abbiamo cognizione che milioni di giovani precari  vivono senza speranze e senza futuro, ma sono privi degli strumenti per scorgere una prospettiva diversa da quella semischiavista inoculata loro per trent’anni? Abbiamo idea che altrettanti milioni di pensionati vivono  praticamente in miseria senza avere alcun referente politico? Abbiamo sentito parlare dei ricatti sul lavoro sempre più soffocanti e degradanti? Cosa diciamo ai disoccupati che il professor Ginsborg non ci sta se se non può costruire esattamente  ciò che aveva ideato? E i beni pubblici li difendiamo comitato per comitato?

Questa è la realtà dalla quale non si può prescindere e che  ha molto più a che vedere di quanto non si pensi con un discorso sulla giustizia e le mafie in continuo contatto-contratto con lo Stato, mentre quest’ultimo continua a disdire il contratto sociale con i cittadini, diventando sempre più “privato”. Strano che nel paese di Gramsci non si abbia il minimo sospetto che è la prassi ad implicare la formazione di volontà collettive, non solo consapevolezza delle contraddizioni sociali, ma anche azione e occasione, momento: le idee sono la storia in atto e non la storia nel salotto. Che sia venuto il momento di agire e di costruire prospettive reali con l’azione è del tutto evidente: bisogna farlo prima che l’impossibilità di praticare le idee  releghi il discorso politico a poco più di un soprammobile. Probabilmente, anzi certamente, ciò che c’è dentro Rivoluzione civile non è l’ideale per nessuno, ma altrettanto probabilmente non sarebbe l’ideale per nessuno che non ci fosse: cerchiamo di salvare una prospettiva e la stesso piano di azione concreto che rende possibili le differenze.

Oppure confessiamo che le nostre idee sono una forma di letteratura.


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