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Bauman e la riflessione sul dominio (Prima parte)

Creato il 21 novembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Bauman e la riflessione sul dominio (Prima parte)
Dove (ammesso che esista un luogo) bisogna cercarlo oggi il dominio? Dove s’annida? Non parlo ovviamente del potere, che come ho avuto modo di dire è soltanto un’espressione del dominio, ma mi riferisco direttamente al dominio. I soggetti non percepiscono direttamente il dominio, ma sempre il potere. Potere vuol dire essere nella condizione di fare o di non far fare qualcosa, ma ciò che pone l’essere della condizione sono i rapporti di dominio, che assegnano a ciascuna istituzione o organizzazione la posizione in forza in virtù della quale è possibile esercitare una modalità di potere. A una domanda del genere risponde anche il sociologo Zygmunt Bauman, nel saggio La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza. Bauman, riprendendo la riflessione di Michel Crozier sul “fenomeno burocratico”, scrive come Crozier abbia individuato nell’uso dell’assenza di ordine, cioè del caos, «l’arma suprema del potere nella lotta per il dominio». Il dominio si ottiene, scrive Bauman, «da un lato abolendo le regole che limitano la propria libertà di scelta e dall’altro imponendo il massimo possibile di regole restrittive alla condotta altrui». Quindi massimo numero di regole per gli altri e minimo numero di regole per sé, cioè ordine per gli altri e caos per sé. Ma la scoperta di Crozier poteva essere valida per i “sistemi chiusi”, quali sono gli istituti burocratici, ma nell’era della globalizzazione, dove i processi sono «dotati di moto proprio, spontanei e imprevedibili, privi di postazione di controllo e di addetti alla pianificazione», questa scoperta del dominio perde di efficacia. Insomma, per Bauman le nuove tecniche di potere affermatasi nell’era della globalizzazione hanno reso superfluo il modello panottico di controllo sociale di Jeremy Bentham, che «presumeva una relazione di reciproco impegno tra governanti e governanti»: «La nuova struttura del potere globale è governata dal contrasto tra mobilità e sedentarietà, contingenza e routine, rarità e densità di condizionamento» (Bauman). L’epoca attuale segna la fine del modello disciplinare praticato nei Panopticon moderni. Il dominio si annida nel potere di mobilità/immobilità: domina chi ha il potere di svincolarsi dal tempo e dallo spazio. Così, domina l’impresa che può smobilitare i suoi stabilimenti e andare a produrre altrove, non gli operai che sono costretti a rimanere vincolati al loro territorio. Dominano le organizzazioni leggere che non hanno vincoli territoriali: «Nel suo stadio pesante, il capitale era inchiodato al suolo quanto i lavoratori che assumeva. Oggi, il capitale viaggia liberamente, portandosi dietro il solo bagaglio a mano contenente poco più che una cartellina portadocumenti, un telefonino cellulare e un computer portatile» (Bauman). La finanza leggera può spostare capitali da una parte all’altra del mondo spingendo un semplice tasto.
Nell’analisi di Bauman il dominio ha cambiata forma: non si riferisce più a quel dominio che controllava l’ordine delle cose, ossia la loro disposizione, a quel dominio che aveva bisogno ogni volta quasi ansiosamente di assegnare un posto ad ogni cosa per poter prevedere ogni mossa. Il dominio non si configura più in questo modo: fare in modo che ogni cosa stia nel posto dove sta.
Configurandosi in un altro modo, anche l’ambivalenza, che del dominio è il reciproco, cambia connotati. Un tempo l’ambivalenza disarticolava le forme di dominio, le scardinava nelle fondamenta. Magari alla fine di questo processo di disarticolazione faceva emergere un nuovo ordine, e quindi dava forma a un nuovo dominio, d’accordo, tuttavia l’ambivalenza, il potere di assegnare contemporaneamente una cosa a ordini diversi, era instancabile, permanente, sempre pronta a disarticolare il dominio nuovo. Perciò il dominio temeva l’ambivalenza: anche se le sue forme venivano generate da essa, come Minerva dalla testa di Giove, ogni forma di dominio non poteva sfuggire alla tentazione di reprimere e combattere aspramente ogni forma di ambivalenza: nell’arte soprattutto, dove l’ambivalenza si solidificava allo stato puro. Perciò il dominio tentava sempre di trovare modi per neutralizzare la potenza ambivalente dell’arte, di assegnarle un ordine, un posto, un ruolo, di farla rientrare nella propria grammatica, nelle proprie sintassi, nel proprio lessico, di classificarla, sistemarla. In una parola di controllarla.
Il dominio non è più accentrato in una istituzione monolitica che lo accumula e lo distribuisce a seconda delle sue esigenze. Nel mondo antico, il dominio sul corpo veniva canalizzato e accentrato dall’apparato politico-militare. Nel mondo feudale veniva accentrato e controllato dalla Chiesa. Nel mondo moderno è stato l’istituzione del mercato ad esercitare la funzione di dominio. Le due forme di dominio precedenti al mercato erano fortemente gerarchizzate: esisteva un centro che trasmetteva a tutti i gangli periferici i suoi ordini e i suoi precetti. Mentre il nucleo vitale del centro politico-militare era fondato sulla disciplina del corpo, la Chiesa feudale era fondata sul nucleo vitale dell’ortodossia (disciplina della fede o dell’anima). Il dominio del mercato sovverte l’ordine gerarchico: non esiste più un centro da cui parte lo scambio delle merci. Ovunque il mercato s’affermi tenta a livellare le condizioni di vita. Venendo a mancare un centro, un ordine gerarchico, anche la concezione del tempo e dello spazio si relativizzano. La produzione di merci si svincola dal tempo meteorologico o dal luogo in cui avviene: scompaiono le differenze tra estate e inverno, tra pioggia e sereno, tra giorno e notte, fondamentali per il contadino ma quasi irrilevanti per il lavoratore in fabbrica. D’ora in avanti chi vuole soddisfare i suoi bisogni primari o secondari deve passare per il mercato. Ma la soddisfazione dei bisogni avviene attraverso lo scambio di una prestazione che il mercato impone. Da un lato dunque il mercato svincola gli esseri umani da alcune condizioni che sembravano ineludibili, quali quelli legati alla natura, al tempo e al luogo in cui si nasceva e viveva; dall’altro, li vincola ad altre condizioni, quali quelle dettate dalle “regole” del mercato. Il dominio del mercato scioglie gli uomini e le donne da alcuni condizionamenti restrittivi, ma ne impone altri di natura diversa. Nel momento stesso in cui il mercato rende inefficaci le regole imposte dalle forme di dominio precedenti ne introduce altre. Inoltre, impone le stesse regole disciplinari che vigevano nella forma del dominio politico-militare nei luoghi della produzione: la fabbrica veniva diretta su un modello verticistico, l’insubordinazione non era tollerata, e ogni forma di protesta veniva repressa. Quando si è imposto il “marchio” di fabbrica, l’appartenenza all’impresa veniva proposta come un atto di fede ortodossa. In sostanza, ogni forma di dominio include la forma precedente di dominio, ma la declina secondo le proprie esigenze. Anche la Santa Romana Chiesa si era comportata in questo modo dopo il crollo dell’apparato politico-militare dell’Impero romano, con la differenza che il modello gerarchico-disciplinare non veniva più posta al servizio di un apparato militare, bensì al servizio di un apparato religioso posto a difesa dell’ortodossia. Chi si poneva fuori da quella ortodossia veniva marchiato come “eretico”, e in quanto tale era passibile di persecuzione. Il giuramento di obbedienza assoluta agli ordini gerarchici garantiva la custodia della fede.


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