Magazine Cinema
BE HERE TO LOVE ME: A FILM ABOUT TOWNES VAN ZANDT (2004)
Regista: Margaret Brown
Attori: Joe Ely, Guy Clark, Willie Nelson
Paese: USA
"Aloneness is a state of being, whereas loneliness is a state of feeling. It's like being broke and being poor." (T. Van Zandt)
Townes Van Zandt è stato un cantautore che artisticamente ha vissuto su dei livelli riservati a pochi artisti, davvero pochi. Dei livelli così esclusivi da essere nient'altro che zone desertiche in cui ci si muove soli con se stessi e con la propria musica; forse solo ogni tanto si ha un contatto con qualcuno o qualcosa, come l'ombra in lontananza di altri artisti di pari livello, anch'essi costretti a vagare*, e anch'essi soli con la loro musica. Si sta parlando, per intenderci, della "Tower of Song" di cui scrive Leonard Cohen in una delle sue canzoni più belle, una torre a cui si accede con una sorta di tacito accordo per cui il prezzo di una musica sublime, nonché della protezione di quest'ultima, è la rinuncia a tutto il resto:
"There was a point where I relized 'I can do this'. But It'll take blowing everything off. Family, money, security, friends. Blow it off. Get a guitar and go' " (T. Van Zandt).
Il ritratto che vien fuori dalle pennellate calde e malinconiche (dettagli - non solo sulle facce dei protagonisti, ma anche su oggetti che ben inquadrano il Sud e ne trasmettono l'anima - primi e primissimi piani) di un'eccezionale Margaret Brown, è quello di un artista pieno di ferite che non hanno mai smesso di sanguinare, ferite con cui Van Zandt ha avuto a che fare ogni attimo della sua vita. È sufficiente una manciata di minuti perché brividi sparsi inizino a correre sotto pelle senza controllo alcuno, ossia quando “Rake” sfonda la parte più emozionale dello spettatore (l'estratto postato appena sopra) dopo aver raccolto il testimone consegnato dalle ultime parole di un barista a cui un giovane Van Zandt lasciò le sue prime incisioni, chiedendogli solo di ascoltarle e di passarle ogni tanto all'interno del locale: “We put the record on, and... we just mesmerize by... ends up we play that record, over and over, for weeks, and let us ri-think what we were doing and what the song was all about”. Anche fermandosi qui si avrebbe un ritratto già assai potente di Van Zandt, che parte da solo, con uno zaino senza nient'altro al suo interno se non le sue incisioni, e le distribuisce ad ogni bar che incontra per strada. Fortunatamente, però, la Brown ha intenzione di andare abbondantemente oltre. E lo fa senza abbassare mai il tiro, tanto che ogni sequenza, ogni intervista, ogni volto che seguirà renderà sempre più difficile mandar giù boccate d'ossigeno, così come fa fatica Kris Kristofferson (il Billy the Kid di quel capolavoro che è “Pat Garrett e Billy the Kid”) a raccontare la prima volta che introdusse Van Zandt sul palco. E non sarà certo l'unico, Kristofferson, durante il documentario a mostrare una certa difficoltà emotiva nel ritrarre l'artista. Ogni volta che accade, tuttavia, si avverte chiaramente che non è solo la mancanza di qualcuno che non c'è più ad emozionare le persone intervistate, ma che è l'aver empatizzato la sua sofferenza a renderne così logorante il ricordo.
(Chi è interessato andrà ad ascoltarsi le canzoni di Van Zandt, quindi qui ne approfitto per postare cover delle sue canzoni interpretate meravigliosamente da altri artisti)
Le ferite, si scriveva. Nell'affrontarle Van Zandt non è mai riuscito ad avere la meglio. Si è lanciato dal quarto piano per porre fine al dolore provocato dalle stesse. Ha subito l'elettroshock, in seguito, per sradicare la tendenza suicida, ma la sofferenza è rimasta, peraltro affiancata, da qui in poi, da un buco nero che ha solo contribuito a rendere inesorabile l'autodistruzione e l'incapacità di contrastarla. Anche nei momenti in cui Van Zandt mostrava la sua proverbiale ironia, specie durante i concerti, si fa fatica a riconoscere una vera serenità; al contrario, risulta chiara la maschera che (non) nasconde un lamento tradito da una voce che non lascia scampo. Nel mentre la Brown continua ad alternare alle interviste immagini e riprese assolutamente perfette, che avvolgono il racconto con un tepore davanti al quale chiunque non sia affetto dalla sindrome di Asperger riscoprirebbe la sua parte più vulnerabile. Che è poi la stessa sensazione che si prova quando si ascolta la musica di Van Zandt, quando si ascolta in particolar modo brani disarmanti come “Rake”, “Waiting Around to Die” o “Pancho and Lefty”. Quest'ultima, nello specifico, sembra parli dei due volti preponderanti del cantautore e di come uno abbia pesato sull'altro. È malinconica, profonda e potente. È una delle canzoni più belle mai scritte.
Non manca, la regista, di inquadrare anche le sofferenze altrui, quelle che l'atteggiamento di Van Zandt ha generato di riflesso su chi gli era affianco, o su chi ci si è ritrovato, come la sua famiglia. Ha sempre messo la sua arte e le relative scelte di vita prima di qualsiasi altra cosa, amici e famiglia, per l'appunto, compresi (v. le parole del suo primo figlio), rendendosi però in tutta probabilità conto delle conseguenze, ma inerme dinanzi al richiamo della sua musica, dell'unico vero canale espressivo attraverso cui riuscire almeno in parte a scaricare un peso che si rivelerà insostenibile. Il tutto al prezzo di una vita fatta di alcol, droghe, estraneità e solitudine... la solitudine del genio. Un mondo tutto suo, in cui forse nessuno è mai riuscito ad entrare, le cui uniche finestre sono le sue canzoni.
(la sua canzone più famosa meravigliosamente resa dal trio canadese)
Nel Gennaio del 1997, a 53 anni, Townes Van Zandt muore, lasciando dietro di sé una vita sfocata, uno voce malinconica venata di disperazione e della musica unica. Al suo funerale, Guy Clark, suo amico e musicista, prima di suonare uno dei brani di Van Zandt, con sincera, seppur amara in fondo, ironia, dice una frase che da sola spiega la vita di quest'artista meglio di qualsiasi altra cosa:
"I guess I booked this gig thirty-some years ago" ("Credo di aver prenotato questo concerto qualcosa come trent'anni fa")
* "Sometimes I don't know where this dirty road is taking me
Sometimes I can't even see the reason why
I guess I keep on gamblin', lots of booze and lots of ramblin'
It's easier than just a-waitin' 'round to die" (Waiting Around to Die)
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