BEASTS OF NO NATION di Cary Fukunaga, storia di Agu bambino guerriero
di Carlo Camboni
Le bestie senza patria sono le bestie di tutte le patrie, appartengono alla terra e al genere che ci ostiniamo a chiamare umano. Beasts of no nation impone allo spettatore la visione del ritratto dolorosamente triste dell’uomo che diventa bestia pur di mancare la sua umanità. Cary Fukunaga rilegge il romanzo di Iweala e sceglie una prospettiva audacemente infantile, la strategia narrativa della voce fuori campo di Agu, bambino guerriero il cui flusso di pensieri elementari mai banali ci accompagna per tutto il suo viaggio agli inferi.Inferni inconfessabili da una terra di confine, un villaggio tra i tanti di una zona cuscinetto in un paese senza nome, luogo di passaggio di profughi di paesi in lotta, teatro di colpi di stato, governi provvisori, giunte militari, soprusi e abolizione dei partiti politici, in cui i mercanti di morte, già morti da vivi ma attori di una Storia che non possiamo più ipocritamente negare, perseguono il principio unico della spartizione delle ricchezze in nome del potere e di sostanziosi conti all’estero.
Ogni forma di violenza ha un’origine, difficile documentarla: il film aiuta a comprendere le cause dei flussi migratori di questo scorcio di millennio senza essere didascalico e tanto basta per intraprendere un viaggio nelle nostre contraddizioni perché: potremmo negarlo a noi stessi ma, nostro malgrado, siamo sempre nella foresta col piccolo Agu, tutti i giorni; lui fugge per cercare rifugio e darsi coraggio, regredisce a uno stato primordiale, primitivo, mangia foglie che vomita mentre noi fingiamo di mangiare la foglia, discutiamo e ci dividiamo su come e se accogliere i rifugiati giocando a chi innalza il muro dell’incomprensione più alto dimenticando che dolore e sofferenza di altri uomini appartengono anche a noi in quanto umani, come se non sapessimo che tutti gli Agu del mondo vengono catturati, addestrati e indottrinati da bestie più grandi e fameliche che lavorano sulla loro psiche e sui loro corpi rubando loro l’immaginazione e rivoltandogliela contro.
Nel prologo vediamo che i giochi di Agu sono diversi da quelli di un ragazzino tutto tablet e video giochi del mondo occidentale, lui è quello che ha idee, sta in strada, inventa una televisione di immaginazione addirittura in tre dimensioni, mima drammi e film d’azione per passanti senza passato né futuro usando una televisione senza schermo, è lui la visione che esplode dallo schermo che non c’è per raggiungere con spavalda innocenza i suoi spettatori, quindi noi: e sarà proprio questo l’ultimo malinconico atto della sua infanzia felice perché Agu, umiliato e offeso dalla Storia che lo rapisce nel suo vortice, sa che non potrà più tornare a casa per “fare cose da bambino”.
Le iniziazioni sono crudeli, l’esaltazione di uccidere col machete è una consacrazione, una bellissima sequenza in cui la voce dell’autore si impone e brilla per intelligenza e coraggio, una condanna senza appello squisitamente politica, la presa di distanza dall’orrore che sta filmando con un’invenzione cinematografica ardita, la macchina da presa si insanguina, vediamo le gocce di sangue di una testa spaccata proprio sull’obiettivo perché Fukunaga vuole avvertirci che non sa più se sta girando un film o un documentario, supera e esalta l’idea baziniana che chiede al cinema di annullarsi nella realtà che rappresenta, ci schiaffeggia, ci obbliga a un sussulto e ci urla che mentre noi guardiamo il suo bel film in una comoda poltrona il sangue continua a scorrere e tutti gli Agu del mondo,che conoscono l’odore dolce dei morti e il fetore dei vivi, sentono sempre meno forti i legami con la vita, ammesso che possano ancora dirsi vivi.
Il regista scrittore, appunto,costringe lo spettatore a uscire da se stesso e dalle proprie insicurezze spacciate per convinzioni, instaura un legame tra macchina e mente dello spettatore attraverso un linguaggio cinematografico sorvegliatissimo e allo stesso tempo sontuoso, basato sulle sue raffinatissime speculazioni intellettuali mentre i virtuosismi di cui è capace sono al servizio di scelte radicali, una messa in scena che evidenzia la drammaticità delle situazioni con inquadrature che privilegiano i personaggi e lo spazio del racconto e quindi ricordano l’appartenenza a una terra stuprata, paesaggi primitivi e selvaggi quanto gli istinti delle bestie che li abitano… Attori perfetti, grande cinema: la narrazione non si piega alla logica del racconto rischiando di esplorare territori già noti, anzi, si fa spettacolo e brivido, fino alla vertigine del finale che forse non racconta niente, è solo immaginato, ma scalda il cuore dell’Agu che è in noi.
Carlo Camboni
Cover Amedit n. 25 – Dicembre 2015
“Célestine” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione online di Amedit n. 25 – Dicembre 2015.
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