Beasts of the Southern Wild

Creato il 11 dicembre 2012 da Eraserhead
In Rete c’è una sorta di plebiscito nei confronti di Beasts of the Southern Wild (2012), opera prima già (accl)amatissima che può vantare due prestigiosi riconoscimenti come la vittoria del Sundance e della Camera d’Or a Cannes. In effetti il regista classe ’82 Benh Zeitlin, nella cui biografia pare ci sia pure una capatina in Europa alla corte di Re Švankmajer (ma non eccitatevi, qui non vi sono tracce di una possibile influenza artistica), ha dei meriti che vanno riconosciuti: il concepimento e la conseguente realizzazione denotano una verve apprezzabile che si ben riassume nell’incipit pirotecnico, cinque minuti in cui vengono dettate le linee guida dell’intera opera: capiamo che sarà un racconto Hushpuppy-centrico e quindi votato ad un’ottica infantile, che tale racconto si occuperà di una comunità di paria male in arnese, che la realtà rappresentata sebbene continuamente trasportata in territori immaginifici è comunque venata da scampoli di crudo realismo (infatti ci sarà una diga all’orizzonte, un elicottero, un camice da ospedale), e che questo realismo contestualizza senza affermarla a chiare lettere la geografia del set: siamo in Louisiana, luogo in cui l’uragano Katrina fece il maggior numero di danni.
Zeitlin dà un taglio a metà strada fra il maledettismo di provincia di Clark/Araki/Korine e il “favolismo” trasognante di Spike Jonze, in più fornisce una precisa impronta tecnica con molta camera a mano dalla quale si sprigiona una costante iper-dinamicità che scuote la pellicola dal principio; tutto è molto accogliente: Hushpuppy è una tenace bambolina di marzapane, gli altri componenti del villaggio sono macchiette a cui non si può chiedere niente di più (ho però grosse riserve nei confronti del padre e del suo slang da campetto di basket in cemento, ma magari in Louisiana parlano davvero così e quindi taccio), la presenza parallela di mostruosi animali cinghialeschi che galoppano sulle praterie forniscono quel quid pluris che farà parlare del film come di una storia in cui la fantasia si materializza davanti ai nostri occhi, la questione della malattia paterna un necessario e brusco risveglio dal mondo incantato in cui eravamo precipitati. Eppure, a parte l’inoppugnabile marzapanità di Hushpuppy interpretata dalla novenne Quvenzhané Wallis, non c’è un solo aspetto fra quelli sopraccitati che abbia pienamente convinto il sottoscritto, soprattutto l’intenzione parabolica di innestare ed enfatizzare un dramma umano all’interno del tessuto narrativo e di dargli un peso fondamentale una volta sfrondate le altre divertenti amenità, è per chi scrive un’operazione che denota la non-libertà del progetto (la “libertà”, invece, è una delle qualità decantate in Rete), una mossa abusata che tenta di far leva sui sentimenti del pubblico docile, il che manifesta a mio avviso di come la natura del film sia indie soltanto nell’involucro mentre viceversa il nucleo sia alfabetizzato per abbracciare il più vasto numero di spettatori possibile. Per carità, nulla da rimproverare a Zeitlin, la sua creatura sarà guardata da tanti e questi tanti la esalteranno, voi al contrario state in campana.

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