Roma, 11 settembre 1599.
Le prime luci dell’alba illuminavano i volti pieni di angoscia della folla radunatasi nella piazza di Ponte Sant’Angelo. Tra i presenti anche Caravaggio insieme con il pittore Orazio Gentileschi. Sul patibolo, montato in fretta e furia per l’occasione, sarebbe stata da lì a poco giustiziata per volere di Sua Santità Papa Clemente VIII una giovinetta di 22 anni, appartenente ad a una delle più potenti famiglie tardo-rinascimentali romane.La ragazza, genuflessa in una cappella poco distante, era talmente assorta nella preghiera che non fece attenzione al rumore ed alle grida; soltanto si riscosse quando gli armigeri entrarono nella cappella per precederla al supplizio. Si alzò, guardò in volto i suoi aguzzini e domandò loro: — La mia signora madre è veramente morta? — Le fu risposto affermativamente, ed ella gettatasi ai piedi del Crocifisso pregò con fervore per l'anima di lei. Fu accompagnata ai piedi del palco, ricevette una rapida benedizione e, salita senza indugio la scala, offrì orgogliosamente il suo esile collo alla mannaia del boia pontificio. Rimase con la testa appoggiata al ceppo per alcuni interminabili minuti, poi il colpo vibrò e tutto finì. Il boia raccolse il capo mozzo e lo mostrò al pubblico attonito, mentre il corpo della giovane alle sue spalle ancora si agitava, scosso dai violenti tremiti causati dall’estrema violenza subita. In quel preciso istante era giunta al termine la breve vita terrena di Beatrice Cenci e, inevitabilmente, aveva inizio la leggenda che oggi, dopo oltre 400 anni, fa ancora discutere.
Figlia del conte Francesco Cenci, uomo violento e dissoluto, Beatrice trascorse quasi tutta la sua esistenza segregata nella fortezza di Petrella. Impossibilitata a sottrarsi alle percosse e alle attenzioni sessuali dell’infame genitore, accumulò dentro di sé tanto risentimento che, non appena fu possibile, le fece perpetrare il parricidio che infine la condannò. Fu al terzo tentativo che la sua vendetta ebbe finalmente compimento: si dice che, esasperata dall’ennesimo abuso paterno, Beatrice mise in atto l’omicidio di Francesco Cenci con la complicità della matrigna Lucrezia, dei fratelli Giacomo e Bernardo, del maniscalco Marzio da Fioran, detto il Catalano, e del castellano Olimpio Calvetti. Qui la storia si confonde con la leggenda: c’è chi sostiene che tra quest’ultimo e Beatrice esistesse un’inconfessabile passione, e che fu proprio per amore che il giovane Olimpio Calvetti accettò di sollevare la mano che colpì a morte il conte, una sera di settembre del 1598. Stordito dall'oppio mescolato ad una bevanda durante la cena, Francesco Cenci fu assalito nel sonno: Marzio aveva un grosso chiodo che sistemò in verticale sull’occhio del padre di Beatrice; Olimpio con un martello gli fece entrare il chiodo nella testa. Poi, nello stesso modo, gli piantarono un altro chiodo nella gola. Un lago di sangue inondò rapidamente il letto dove giaceva la vittima. Per nascondere il delitto i congiurati tentarono di simulare una morte accidentale per caduta: Beatrice e la matrigna rimossero i chiodi, avvolsero il corpo in un lenzuolo e in questo modo lo trascinarono verso un ballatoio dove, il giorno prima, Olimpio aveva provveduto ad indebolire alcune assi di legno. Il peso del corpo di Francesco Cenci fece il resto: le assi della balaustra cedettero completamente e il cadavere piombò di sotto, nel giardino ai piedi della Rocca di Petrella, dove fu ritrovato il mattino dopo. Beatrice e Lucrezia congedarono i due complici e si occuparono di pulire ogni traccia dalla scena del delitto.
Inizialmente non furono svolte indagini, ma voci e sospetti, alimentati dalla fama sinistra del conte e dall’odio che aveva suscitato nei suoi congiunti, indussero le autorità ad indagare sul reale svolgimento dei fatti. Per quanto le tecniche investigative di quattrocento anni fa non fossero avanzate come lo sono oggi, un delitto compito in maniera così maldestra non poteva restare impunito. La salma fu riesumata e le ferite furono attentamente esaminate da un medico e due chirurghi che esclusero la caduta come possibile causa delle lesioni. Fu anche interrogata una lavandaia: Beatrice le aveva chiesto di lavare lenzuola intrise di sangue dicendole che le macchie erano dovute alle sue mestruazioni, ma la giustificazione, dichiarò la donna, non le sembrò verosimile. Insospettì gli inquirenti, inoltre, l'assenza di sangue nel luogo ove il cadavere era stato rinvenuto. Con la sola eccezione di Marzio, ucciso mentre tentava di sottrarsi all’arresto, i congiurati vennero rapidamente identificati ed imprigionati.Per i giudici di quel tempo, tuttavia, nessuna prova, per quanto schiacciante, poteva essere definita sufficiente: occorreva una confessione in piena regola per poter chiudere il caso e, in quegli anni bui, per ottenerla esisteva una pratica molto comune, che oggi ormai aborriamo: la tortura.Anche qui la leggenda torna ad offuscare quello che realmente avvenne: si dice che Olimpio cedette inizialmente ai feroci supplizi dei suoi aguzzini ma, in seguito, messo a confronto con l’amata Beatrice, la quale continuava a negare fermamente ogni addebito, si sentì in dovere di scagionarla, addossando su di sé l’intera responsabilità dell’omicidio. Olimpio continuò ad essere sottoposto a torture sempre più atroci e perse la vita quello stesso giorno, legato ad uno dei sadici strumenti degli inquisitori. I fratelli di Beatrice, Giacomo e Bernardo, cedettero da lì a poco e confessarono, Lucrezia fece lo stesso. Beatrice fu l’ultima a cedere ai suoi aguzzini.
Sua Santità Papa Clemente VIII, lo stesso papa che sospinse sulla pira il grande filosofo Giordano Bruno con l’accusa di eresia, sentenziò la condanna a morte dei componenti della famiglia Cenci alle 4 del mattino del 10 settembre 1599. Beatrice e Lucrezia furono condannate alla decapitazione, da eseguirsi senza alcuna possibilità di appello la mattina successiva. Giacomo e Bernardo, sebbene non presenti nel momento dell’omicidio, furono ritenuti colpevoli di cospirazione. Il fratello maggiore, Giacomo, fu condannato allo squartamento, da eseguire legandogli gli arti a quattro cavalli che sarebbero stati lanciati in direzioni opposte. Al piccolo Bernardo, poco più che un bambino all’epoca dei fatti, fu risparmiata la vita: venne tuttavia legato ad una sedia posta direttamente davanti al patibolo, e costretto ad assistere alle esecuzioni dei congiunti. Fu quindi castrato e condannato a trascorrere il resto della sua vita incatenato ai remi delle galere papali.La prima a salire sul patibolo fu Lucrezia. Si dice che l’esecuzione andò per le lunghe a causa di un piccolo inconveniente che il boia non aveva tenuto in considerazione: i grossi seni della donna non le permettevano di appoggiare correttamente il collo sul ceppo. Infine fu la volta di Beatrice Cenci. Il corpo della giovane, come lei stessa aveva richiesto prima di morire, fu sepolto in un loculo davanti all'altare maggiore di San Pietro in Montorio, sotto una lapide priva di nome, secondo le norme previste per i giustiziati.
Clemente VIII, nel corso del processo, respinse più volte con decisione qualsiasi richiesta di clemenza per la giovane Beatrice. Ma perché? Un uomo di chiesa, neppure il suo più alto rappresentante, non era forse in grado di provare un briciolo di pietà? Cosa si nascondeva dietro il ridicolo panegirico con cui il Papa esaltava le (discutibili) virtù del Cenci? Il motivo di tanta fermezza non era ahimè diverso da ciò che ancora oggi muove i palazzi della politica, vale a dire l’avidità di denaro. Dopo l'esecuzione, le proprietà della famiglia Cenci furono confiscate dalla Camera Apostolica e successivamente cedute, per una cifra simbolica, a Gian Francesco Aldobrandini, nipote del papa. Vi ricorda qualcosa? A me ricorda quei finanziamenti pubblici, trasformati magicamente in risorse immobiliari, scomparsi e magicamente ricomparsi nelle mani di parenti ed amici dei nostri onorevoli politici. Qualcuno potrebbe azzardare l’ipotesi che il Medioevo in realtà non sia mai finito.Povera Beatrice. Neppure la morte è riuscita a darle la pace che cercava. Due secoli dopo la sua esecuzione, durante l'occupazione di Roma da parte dei francesi, un gruppo di sanculotti profanò le tombe di San Pietro in Montorio. Il pittore Vincenzo Camuccini, testimone oculare dell'avvenimento, ci dice che la tomba di Beatrice fu aperta. Un soldato ne prese il teschio e cominciò a gettarlo a più riprese in aria, a mo' di palla. E ciò fatto se lo portò via.Non c’è da stupirsi quindi che il fantasma senza pace di Beatrice Cenci venga visto aggirarsi ancora oggi laddove il suo corpo terreno trovò una tragica morte. C’è chi è pronto a giurare che Beatrice si ripresenti puntuale ogni 11 settembre in piazza di Ponte Sant'Angelo: tra le mani, la testa mozzata.
La storia drammatica di Beatrice Cenci ha colpito la fantasia di artisti, musicisti, poeti e drammaturghi, particolarmente dall'Ottocento in poi. Sono nate così molte opere di tono diverso, nelle quali si sottolineavano via via gli aspetti romantici, tragici, anticlericali, patriottici, storici della vicenda.Tra i tanti lavori, ricordiamo quelli di Percy B. Shelley (The Cenci: A Tradgedy in Five Acts, 1819), Stendhal (Les Cenci-Croniques italiennes, 1839), Antonin Artaud (Les Cenci, 1934), Alberto Moravia (Beatrice Cenci, 1958), Alexandre Dumas (Les crimes celebres: Les Borgia; La marquise de Ganges; Les Cenci,1856), Alfred Nobel (Nemesis, 1896). Alberto Ginastera (Beatrix Cenci, opera in due atti, su libretto di William Shand e Alberto Girri).In campo cinematografico, la storia di Beatrice è stata narrata nei film di Mario Caserini (Beatrice Cenci, 1909), Ugo Falena (Beatrice Cenci, 1910), Baldassarre Negroni (Beatrice Cenci, 1913 e 1926), Guido Brignone (Beatrice Cenci, 1941), Riccardo Freda (Beatrice Cenci, 1956) e Lucio Fulci (Beatrice Cenci, 1969).