Magazine Diario personale

Beethoven in prigione

Da Parolesemplici

Per qualche anno la mia azienda, regalò dei concerti di musica classica alla città. Era un modo per dividere, con i cittadini, una parte dell’utile del nostro lavoro. L’esperienza fu bella e particolare, tanto da scordare la fatica dell’organizzazione. E vi posso assicurare che regalare qualcosa, non è facile. Di questi concerti esistono le registrazioni e l’edizione su cd, ma di uno esiste solo una copia del filmato. Vorrei parlare proprio di questo.

Il solista era un giovane pianista russo, Evgheny Brakhman, vincitore di importanti concorsi internazionali. Un virtuoso di talento. Doveva fare tre concerti con noi.  Chiedendo aiuto per l’organizzazione, emerse una possibilità: un concerto in penitenziario. Per fare queste cose occorre una buona dose d’incoscienza, ovvero affrontare i problemi man mano si presentano. Noi avevamo l’incoscienza; chi ci aveva fatto la proposta era una cooperativa che lavorava con i detenuti, loro si preoccuparono dei permessi. Noi del resto. Tralascio spiegare cosa significhi portare un pianoforte da concerto in un carcere, comunque si arrivò al giorno.

Era pomeriggio, un sole caldo di maggio. Noi, gli esterni, eravamo una dozzina. Controlli, corridoi, rumore di cancelli che si chiudevano alle spalle. Ma mano si procedeva, si entrava nel ventre d’un animale che viveva, digeriva, graffiava la pietra per rifarsi le unghie. Ma erano i suoni che accompagnavano, i clangori del metallo, i passi, il silenzio fatto di strisce di rumore parallele e noi, alieni, che ci muovevamo in un mondo messo da parte.

La sala era un piccolo anfiteatro, il pianoforte al centro, poi gradinate di cemento fino alle finestre a sbarre in alto. Sedemmo in prima fila, intorno c’era il vuoto. Evgheny era andato a mettere l’abito da sera. Ricordo il tono dei discorsi, qualche parola imbarazzata come i risolini che alleggerivano la tensione d’essere in posto rimosso dalla testa. Il capo delle guardie spiegò che nessun detenuto era obbligato a venire, avevano parlato della possibilità il giorno prima, durante il pranzo. Poteva non arrivare nessuno. E invece poco per volta la sala si riempì. Circa un centinaio di detenuti presero posto. L’attesa sembrava importante più per noi che per loro, che chiaccheravano tra loro. In più lingue e dialetti, la sala era piena di voci. Quando entrò Evgheny calò il silenzio. Di colpo. 

Da quel momento il suono e il silenzio cominciarono a dialogare. Il tempo e la vita altrove erano in quella sala, riuniti in qualcosa che apparteneva al mondo esterno, ma era lì, condiviso come accade in una sala da concerto. Quando si ascolta musica a teatro, ognuno prova sensazioni proprie, eppure l’unità della sala si ricongiunge sul palcoscenico, un cono d’attrazione che preme e riceve dal concertista. Ebbene la stessa magia dell’uno e dei tanti si era riprodotta nella sala del carcere. Il programma non era ridotto, era un normale concerto in due tempi. L’ultimo pezzo era la tempesta di Beethoven. Ero un po’ preoccupato per la qualità dell’accordatura del piano, per la temperatura, per la difficoltà e l’emozione che doveva emergere. Ebbene, non ho mai sentito Brakhman suonare, con tanta determinazione e chiarezza. Alla fine ci fu un silenzio che seguì l’ultima nota e poi l’esplosione dell’applauso. Lungo, forte, con richieste di bis, e persone che scendevano dalle gradinate e attorniavano il pianista in piedi, e lo toccavano, volevano abbracciarlo. Le guardie erano preoccupate, dividevano, allontavano. Venne presa la decisione di riportare i detenuti in cella per sicurezza e così avvenne. 

Mentre uscivano, ascoltavo i commenti, i bravo detti a voce normale, come fosse uno di casa, le domande sulla provenienza del concertista e chi sapeva dov’era Gorki, lo diceva al vicino. Finché, improvvise, alla fine, un fiotto di parole in russo. Chi parlava era un signore sui 50 anni, alle mie spalle. E iniziò uno scambio di sorrisi e risposte che s’incrociavano, la commozione di una lingua comune, fino ad una stretta di mano che sembrava un abbraccio. Le guardie li divisero immediatamente. L’anfiteatro ormai era vuoto, conteneva solo noi. Gli esterni. Evgheny sedette, e suonò un pezzo breve: Traumerei. Era un bis  senza pubblico, anche noi eravamo in più. Era solo per l’emozione sua, per il cuore. Per questo il nostro applauso, alla fine, suonò senz’ eco.

Uscimmo in silenzio, sembrava una consegna concordata ed invece era l’emozione che durava. Dopo l’ultimo cancello i rumori, le luci, le auto, la città.

Come un risveglio nella sera.

p.s.uscendo  ho chiesto ad Evgheny se era emozionato e dell’esecuzione che ne diceva, mi rispose: emozionato? davvero tanto e  la tempesta, stasera, spero di suonarla  come oggi.

Non la suonò allo stesso modo, l’esecuzione fu meno emotiva e carica di forza. Come se una parte della forza del pomeriggio fosse stata spesa definitivamente.

I detenuti avevano avuto il meglio per un’ora, e non mi sono mai pentito che così fosse stato.

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