Un tempo c'era Tim Burton: c'era un tempo il ragazzo ribelle, reduce da film scanzonati e sinceri e perfino da preziosissimi cortometraggi, Poi arrivò il successo e arrivò per tutti, tra le braccia di Beetlejuice (1988, tit. or. Beetle Juice), il film con il quale in molti lo abbiamo conosciuto e cominciato ad amare.
Irriverente e beffarda parodia della vita dopo il trapasso, oltraggioso confronto tra la cecità dei vivi e quella dei morti, con l'avarizia degli uni e la sprovvedutezza degli altri, Beetlejuice è una vetrina sull'immaginario di Tim Burton e uno sconfinamento della fantasia degli spettatori oltre l'ignoto. La vicenda è quella di una coppia di sposini, Barbara (Geena Davis) e Adam Maitland (Alec Baldwin), che rimangono vittime di un incidente stradale, ma sono costretti a vedere ciò che accade nella loro casa alla loro scomparsa. Nuovi inquilini compresi. E non sarebbe Tim Burton se le situazioni tradizionali non venissero invertite e se i vivi non fossero (parecchio) più spaventosi dei morti: Charles (Jeffrey Jones) vuole soltanto riposare, mentre la sua antipaticissima seconda moglie Delia (Catherine O'Hara) vorrebbe trovare un po' del suo dorato bel mondo newyorkese in provincia e la figlia Lydia (un'ancora giovanissima Winona Ryder) si dibatte in quell'unica, immensa "camera oscura" che è la sua vita. In più c'è Otho (Glenn Shadix), personaggio piuttosto ambiguo nell'essere e nel fare, che complica un po' e la situazione.
In effetti, sebbene sembri paradossale, non c'è spazio per la morte in Beetlejuice. Non c'è neanche una vita, c'è solo un'invalicabile continuità astratta tra un'ingordigia nella vita e un'ingordigia di vita, tra l'ignoranza e la sicumera, senza passare neanche per sbaglio attraverso la fede o un più umana fiducia nel prossimo. Ambientato, come spesso accade in Tim Burton (vedi soprattutto Edward Mani di Forbice), su una collina isolata, nella più pura tradizione dark e horror (che vede in Winona Ryder un magnifico contrappunto),Beetlejuice è, come sempre, frutto di un genio urbano, ma non urbanus (che significa cittadino nobile, gentilizio, aristocratico - insomma - contrapposto a campagnolo). L'architettura del mondo dei morti è una copia squallida del mondo della nostra vita metropolitana e burocratica, correlativo oggettivo di metafore e similitudini di una serrata, quanto effimera dialettica politica e giornalistica (i suicidi che diventano impiegati statali nell'aldilà, e via farneticando).
Beetlejuice è disarmante e a suo modo definitivo nel suo rifiuto di risposte: Tim Burton azzera tutto, propone uomini e donne che con difficoltà e malvolentieri accettano la propria morte reale (non teorica o a venire), ma che non ne hanno neanche paura. Per questi esseri in sospeso tra l'essere e lo sparire, tutto comincia e finisce nell'improvvisa consapevolezza: non c'è storia dietro di loro, gli eventi sono gags messe in scena (celeberrima a ragione la cena al ritmo di Henry Belafonte), che solo l'umore del momento e lo sfacciato camaleontismo dei suoi personaggi ricodificano in senso ora grottesco, ora esilarante, sempre a portata di ironia.