Una cittadina rurale di 17mila abitanti è la fucina dei più grandi campioni di atletica etiopi. Le ragioni in un documentario inglese intitolato “Town of Runners”.
All’inizio è l’emozione pura. Il regista mostra le immagini di un paese sconosciuto. L’Etiopia. Un altipiano di colline ondulate, molto verdi, l’Acrocoro meridionale, che potrebbe ricordare vagamente l’Italia centrale, se non fosse che mancano i capannoni commerciali, i tralicci dell’elettricità, le strade asfaltate e tutte quelle bellezze industriali che costellano la penisola.
Kenenisa Bekele, plurimedagliato e detentore dei primati mondiali sui 5000 e 10000 metri.
La cittadina africana appare all’alba sotto una coltre di foschia. Bekoji, regione dell’Oromo, 2800 metri sul livello del mare, 17.000 abitanti, poco più di un grosso villaggio. Si vedono persone che si muovono nella foschia del mattino, pronte ad un’altra giornata di durissimo lavoro nei campi con gli aratri di legno, per cavare dal suolo quello che è appena sufficiente per la propria famiglia. Appare una strada rossa di terra battuta, costruita dagli italiani durante l’occupazione coloniale, lungo la quale si erigono semplici costruzioni colorate di cemento. L’aspetto è povero ma dignitoso.
Ed infine ecco la foresta che circonda Bekoji, alberi sottili tra cui filtrano i primi raggi del sole. E’ l’alba, l’ora dell’allenamento per decine di ragazzi e ragazze. Corpi sottilissimi di adolescenti senza un filo di grasso, volti scavati, asciutti, scarpe da ginnastica e tenute variopinte, nessun lusso ma neppure alcuna miseria apparente. Sotto gli occhi del leggendario coach Sentayehu Eshetu, a decine corrono, fanno salite, svolgono sedute di potenziamento, esercizi di scioglimento e di mobilità articolare, in schiere ben allineate come soldati sincronizzati, serissimi, apparentemente senza un grammo di fatica sul volto.
Il loro obiettivo? Diventare un campione di atletica e guadagnare in un anno tutto quello che potrebbero (forse) ottenere in una vita. Questi ragazzi sono disposti ad ogni sacrificio, per raggiungere i grandi campioni etiopi che sono venuti tutti dal loro stesso villaggio, Bekoji, divenuta così famosa da meritare l’onore di un film documentario inglese chiamato, appunto, “Town of Runners”.
Tirunesh Dibaba.
Il mondo del fondo si divide in due categorie: keniani ed etiopi. Punto. Alle Olimpiadi di Pechino del 2008 i membri delle due nazioni africane hanno guadagnato la bellezza di 21 medaglie nell’atletica leggera, a Londra nel 2012 sono scesi a 18 medaglie. Tutti nelle gare dagli 800metri in su. Alcuni nomi etiopi sono ormai leggendari. Haile Gebrselassie è forse uno dei più grandi fondisti della storia, sia per i risultati ottenuti che per la durata della sua carriera. La concorrenza sta diventando sempre più forte. Anche altri paesi del continente stanno emergendo, come l’Uganda, mentre le potenze tradizionali, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, cercano di tornare alla luce, anche se spesso con atleti di origine africana (Mo Farah, bicampione olimpico somalo per l’Union Jack nel 2012).
Nel frattempo Bekoji è la città più medagliata al mondo. Sentite qui.
Derartu Tulu: oro sui 10.000 a Sydney e Atene. Vincitrice della maratona di New York nel 2009. Fatuma Roba: oro nella maratona di Atlanta. Tre volte vincitrice della maratona di Boston. Le tre sorelle Dibaba, a loro volta cugine della Tulu, che hanno collezionato tutte le medaglie possibili: Ejegayehu, nata nel 1982, argento sui 10000 ad Atene; Tirunesh, nata nel 1985, tre ori tra Pechino e Londra, più moltissime altre vittorie ai mondiali; e infine la giovanissima Genzebe, nata nel 1991, fortissima a livello giovanile, oro ai mondiali indoor del 2012, l’aspettiamo ai mondiali di atletica del 2015. Infine i fratelli Bekele: Tariku, bronzo a Londra sui 10000 metri; e Kenenisa, di cui è difficile contare gli ori tra olimpiadi, mondiali e mondiali di cross. Kenenisa Bekele è l’attuale detentore dei record mondiali sui 5000 e 10000 metri, quest’ultimo in 26’17”53. Per darvi un’idea, significa correre 25 giri di 400metri in 63 secondi. Provateci una volta a fare un giro di campo a quella velocità.
Genzebe Dibaba, grande promessa del fondo etiope.
Questi sono i nomi con cui gli appassionati di atletica sono diventati familiari, quelli che ce l’hanno fatta, che sono sopravvissuti alle enormi difficoltà in cui vivono gli atleti africani: la povertà, l’assenza di strutture, la corruzione dei funzionari. Quelli che sono stati determinati abbastanza dal mantenere alta la motivazione negli anni formativi, tra i 12 e 18 anni, in cui la promessa diventa un campioncino regionale, e il campioncino può ottenere un posto in una società professionista di Addis Ababa o in un centro di allenamento, con vitto, alloggio e qualche soldo in tasca, passaporto indispensabile per ottenere gli ingaggi che lo/la porteranno sulle strade dell’atletica di vertice, dove la presenza in una maratona media può valere qualche migliaio di euro.
Ecco l’incentivo dei ragazzi di Bekoji. La fama e la fuga dalle ristrettezze. I soldi per costruirsi una casa, acquistare degli appezzamenti e degli animali o per avviare un’attività economica, come pare che stia per fare Tirunesh Dibaba, con un hotel in Etiopia.
Ma come si arriva a diventare campioni? Da dove si parte? E quali sono le difficoltà? Il documentario “Town of Runners” racconta gli anni cruciali di due ragazzine di Bekoji: Hawii Megersa ed Alemi Tsegaye, all’inizio rispettivamente 14 e 15 anni. Il film inizia nel 2008 e termina tre anni dopo. Hawii e Alemi sono due grandi amiche, che si allenano e vanno a scuola assieme, accomunate dalla stessa povertà di condizioni e dalla stessa ambizione, condita da sorrisi commoventi e fiduciosi. Hawii, dopo la morte del padre, vive con i suoi cinque fratelli e sorelle e la madre, coltivando un piccolo terreno. Forse una frase della madre di Hawii spiega cosa c’è dietro la passione per la corsa. “Qui non c’è altro che la scuola e la corsa… Altrimenti, per Hawii c’è solo il matrimonio”. Anche Alemi viene da una famiglia di contadini. Il padre guida un bue tra i campi. La madre pesta i grani con un rudimentale mortaio. Non comprende bene perché la figlia corra ma non si oppone. Alemi vorrebbe correre per il suo paese e diventare la nuova Tirunesh Dibaba, per avere “una vita migliore dei suoi genitori”.
La pista di allenamento di Bekoji.
E’ normale alzarsi molto presto la mattina per allenarsi, con la benedizione dei genitori, come dice il coach Sentayehu. Ma la scalata verso il successo è durissima. La competizione feroce. Per arrivare in Gran Bretagna dove “c’è sempre la neve”, come dicono le ragazze ridendo tra loro, le trappole sono moltissime. Sia Alemi che Hawii scopriranno il dolore della separazione dalla famiglia, le insidie di vivere lontane da casa, in mano a politici locali dalle mani bucate, che costruiscono bellissimi centri di atletica ma si dimenticano i fondi per il cibo, come capiterà ad Hawii, che alla fine sarà costretta a tornare a Bekoji, delusa ma non sconfitta.
Ciò che appare nel documentario è come lo sforzo individuale sia sostenuto collettivamente. Sentayehu afferma ridendo che “in altre città dicono ‘voi siete diventati matti!’”. Una delle scene più significative racconta di come i ragazzi e le ragazze di Bekoji si organizzino per sistemare collettivamente la loro pista rudimentale di atletica, un ovale in terra battuta senza corsie. Dopo la stagione delle piogge, infatti, bisogna ripulire il terreno delle piante cresciute vigorosamente sul terreno di corsa. Si lavora a mano, con pochi attrezzi, una zappa, una vanga, trasportano le erbacce su sacchi di tela, senza una carriola, senza una macchina. Ma con uno spirito incredibile.
“Town of Runners” è una storia che va al cuore di ciò che siamo. Non tutti possiamo diventare superstar, ma ciò che conta è la determinazione a migliorare la propria vita. Con un obiettivo davanti, non c’è nulla che non si possa ottenere. L’ottimismo e la vitalità di questi adolescenti, come degli altri caratteri che li circondano, è quello di un paese che anche attraverso l’atletica tenta di superare le costrizioni dell’arretratezza.