Fratelli miei, un abbraccio e un ricordo. Un abbraccio per la gloria che voi diffondete sul nome santo d’Italia, per la fede serbata alla bandiera dell’indipendenza e della libertà, quando il tradimento regio e gli avversi fati lasciavano voi soli a difenderla, per l’insegnamento che voi date a noi tutti della più rara virtù, la costanza: un ricordo perché come avete saputo guardare il core dal terrore che vien dal nemico, sappiate guardare la mente dalle illusioni che v’affacciano i falsi amici. Splenda in Venezia l’idea pura, incontaminata di transazioni codarde, colle false dottrine che uccidono le aspirazioni dell’anima. L’Italia del medio evo traeva alternando gli auspici dall’Impero e dal Papa. La nuova Italia, l’Italia del popolo, li trarrà, benedicendo, da Venezia e da Roma: da Venezia che serbò il sacro fuoco della Nazione, da Roma che ne diffonderà la luce e il calore fecondo per tutta quanta l’Italia. Roma s’ispirò alla fede di Venezia; Venezia s’ispiri oggi in Roma alla speranza dei grandi fati che stanno per sorgere: dall’intima unione delle due città sorgerà la potenza d’amore che annoderà, in modo d’una unica vita, tutte le parti del bel paese. E avremo forza, gloria eterna e santità di missione. Non badate, o fratelli, a voci insidiose che movano da uomini traditori del concetto italiano in una parte della nostra terra, data anch’oggi agli artificii dei raggiratori ed ai sofismi dei cortigiani. Rimanete fedeli alla religione dell’unità nazionale. Roma aspetta questo da voi: Roma non può vivere, se non della vita d’Italia. E l’Italia vivrà, né forza alcuna potrà far che non viva, il giorno che vedrà gli uomini di Venezia movere al Campidoglio e confondere i loro voti e le speranze ed i pensieri cogli uomini dell’eterna città. Nessuna fra le genti italiane potrà resistere al prestigio esercitato dai vostri due nomi. Ed io m’adopro come posso adoperare qui dov’io sono, al trionfo all’idea repubblicana rappresentata da voi primi; all’idea unitaria rappresentata da Roma. E perché, presso a viaggiar verso Roma, sento pur sempre più vivo di giorno in giorno il desiderio di visitare la vostra città, ho voluto almeno con queste poche parole fidate ad un amico, ricordarmi a molti che tra voi mi conoscono, e raccomandarmi a tutti come un fratello che benedice da lungi ai vostri lavori, che studia con amore ciascuno dei vostri passi, e confida in voi, e sa che voi siete oggimai levati troppo in alto per discendere dalla grande via che guida alla patria, ai torti viottoli dei faccendieri politici che tentano sostituirle la meschina idea d’una dinastia senza passato, e senza avvenire. Vostro Giuseppe Mazzini (Al circolo italiano di Venezia, pubblicata sull’ ALBA, Firenze 1849).
ODE COMPOSTA IN PRIGIONE
L’amore del canto
Chi rende al captivo?
Tu, sole, tu divo
Di luce tesor.
Oh! come oltre il cinto
Di mia sepoltura,
L’intiera natura
Innebrii d’amor.
Di tanti di luce
Torrenti giocondi
Ch’effondi sui mondi
Che ha vita per te,
Se picciola stilla
Mio carcere bea,
Lì pur si ricrea;
Più tomba non è.
Ma deh! Perché a queste
Funeste contrade
Di te così rade
Fiate fai don?
Oh! fulgi più spesso
Or ch’itali petti
Qui giaccion costretti
In nere prigion!
Mal uso a tue pompe
Lo Slavo non sente
Sì forte, sì ardente
Di luce desir.
Ma a noi dalle fasce
Avvezzi ad amarti,
Bisogno è cercarti,
Vederti, o morir.
Mai sotto al lontano
Paterno mio cielo
Gran tempo niun velo
Ti cinga d’orror.
Al padre, alla madre
Di questo captivo
Tuo raggio festivo
Incanti il dolor.
Ma che serve ovunque gema
Questa salma abbandonata,
Se una mente Iddio m’ha data
Che nessun può vincolar?
-Silvio Pellico-