È stato arrestato giovedì scorso a Bergamo, nel disinteresse quasi generale, Bahar Kimyongür, giornalista e attivista belga di origini turche. Era arrivato in Italia per partecipare ad una serie di conferenze sul Medio Oriente, ma una volta atterrato ha trovato ad attenderlo la polizia.
Il suo arresto fece molto discutere, tanto che il caso finì anche per essere l’oggetto di un documentario, Résister n’est pas un crime, girato nel 2008 e premiato l’anno successivo al Festival cinematografico internazionale dei diritti dell’uomo di Parigi (Fifdh).
Da sempre critico nei confronti del primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, in passato Bahar si è schierato a favore di alcuni prigionieri politici turchi in sciopero della fame.
Come giornalista collabora con il sito Investig’action, diretto dal giornalista Michel Collon. Da sempre attivo nelle battaglie a favore dei diritti umani, negli ultimi anni aveva duramente attaccato le ingerenze del governo turco nella guerra civile siriana, tanto da scrivere anche un libro dal titolo significativo: Syriana, la conquête continue.
Nel febbraio 2012 ero a Bruxelles per intervistarlo: l’argomento era proprio il Medio Oriente. Quando la telecamera si accese, lui iniziò a raccontare di Siria, Turchia, Stati Uniti. Era un fiume in piena e smettere di ascoltarlo era praticamente impossibile: parlava con quell’entusiasmo che hanno solo le persone che amano quello che ti stanno raccontando. Quando gli chiedevo di essere sintetico (maledetti tempi giornalistici!), lui alzava gli occhi, sorrideva e diceva: «Ci sarebbero così tante cose da dire!».
Questo è il ricordo che porto con me di Bahar.
Lunedì prossimo la Corte d’Appello di Brescia dovrà decidere se liberarlo o no, mentre la procedura di estradizione richiederà alcuni mesi. Il giornalista rischia quindi di essere mandato in Turchia. Sempre nel disinteresse (quasi) generale.