Belle addormentate, una favola di scienza

Creato il 26 maggio 2015 da Media Inaf

La “bella” più addormentata di tutte è “Uber Die Adsorption in Losungen”: apparsa sulla rivista Zeitschrift für Physikalische Chemie nel 1906, la pubblicazione del chimico tedesco Herbert Freundlich è rimasta, pressoché dimenticata, a prender polvere per quasi un secolo, fino al 2002, quando di colpo lavori scientifici d’ogni sorta cominciarono a farvi riferimento e a citarla. E se il paper di Herbert, pur svettando in cima alla classifica – con un “coefficiente di bellezza” B pari a 11600 – non è certo fra le celebrities della scienza, scorrendo la top twenty s’incontrano anche lavori arcinoti come, per esempio, al 14esimo posto (con B pari a 2258), l’oramai mitico articolo nel quale Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen proposero per la prima volta l’esperimento mentale divenuto poi celebre come paradosso EPR.

«È stato pubblicato nel 1935, ma è rimasto essenzialmente ignorato fino al 1994, quando ha iniziato a ricevere un grande numero di citazioni», ricorda ai microfoni di Media INAF Alessandro Flammini, ricercatore all’Indiana University e autore, insieme a Qing Ke e ad altri due ricercatori italiani – Emilio Ferrara e Filippo Radicchi, anch’essi dell’Indiana University – d’uno studio appena pubblicato su PNAS dal suggestivo titolo “Defining and identifying Sleeping Beauties in science”. Ovvero: definire e identificare le belle addormentate della scienza.

A battezzarle in questo modo, sleeping beauties, è stato nel 2004 l’esperto di tecniche bibliometriche Anthony Van Raan. Di che si tratta è presto detto: le “belle addormentate” sono quelle pubblicazioni scientifiche il cui numero di citazioni – che, come i ricercatori ben sanno, è forse la valuta oggi più prestigiosa per misurare il successo d’uno studio scientifico – rimane pressoché a zero per lunghi anni, per poi decollare all’improvviso. Come identificarle? C’è chi ci ha provato, selezionando valori di soglia per alcuni parametri (profondità e durata del “sonno”, intensità del “risveglio”) e arrivando a concludere che le belle addormentate ci sono, ma sono rare.

Lo studio appena uscito usa un approccio radicalmente diverso: fa emergere dall’oceano dei big data bibliometrici – ben 22 milioni gli articoli analizzati – un solo parametro libero: B, appunto, il “coefficiente di bellezza”. E dimostra come le “belle addormentate” – più che fare mondo a sé – si collochino in realtà lungo un continuum, come siano più frequenti di quanto si pensasse, e come il loro sonno possa durare incredibilmente a lungo: ci sono casi di pubblicazioni rimaste in letargo per oltre mezzo secolo.

Chi le risveglia? «Ancora non siamo in grado di dirlo. Stiamo cercando il principe, stiamo cercando di capire in cosa consista il “bacio” che risveglia un articolo, però non sempre è possibile stabilirlo con mezzi automatici», sottolinea Flammini. Una cosa che invece già sono riusciti a osservare è la diversa distribuzione delle sleeping beauties nei vari ambiti della scienza: «Senz’altro fisica e chimica sono quelli in cui ne abbiamo trovate di più, ma sono tante anche in statistica».

Ora, tenendo conto dell’importanza crescente che alcuni indici bibliometrici – l’H-index su tutti – hanno avuto, almeno fino a poco tempo fa, per tentare di valutare su basi meritocratiche gli enti, le università e i singoli gruppi di ricerca (si pensi in Italia all’istituzione dell’ANVUR), quali conseguenze possono avere, in questo ambito, i risultati dello studio degli scienziati dell’Indiana University? «Forse l’unica cosa che il nostro lavoro aggiunge, se mai ce ne fosse bisogno, è un invito alla cautela, per evitare di adottare questi indicatori in maniera selvaggia», suggerisce Flammini. «Sono indicatori basati sulle citazioni, dunque se è vero che l’importanza di un articolo può emergere anche dopo molti anni, misurarla solo con le citazioni che ha oggi potrebbe essere fuorviante».

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Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina


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