Bellezza e intelligenza in cantina: i neo barbari non la sopportano

Creato il 22 agosto 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

La classe dirigente dei neo-barbari ha fretta di “uniformarsi, nella gestione, ai criteri dell’efficienza economica”.
È ora di finirla, dicono, con quegli imbelli, retrogradi ed oscurantisti, inetti a convertire bellezza, arte e cultura in profittevoli macchine da soldi.
Ormai spudorati nell’esercizio del ricatto, propongono una di quelle loro scelte impossibili: rinviano un aumento dell’Iva o un altro iniquo intervento sui ticket in cambio di qualche rinuncia, che in fondo la divina commedia o il cenacolo, mica si infilano dentro a un panino e un popolo di schiavi non ha bisogno di poesia, armonia, colori, memorie e paesaggio.
Oggi veniamo a sapere che una parte della storia di Napoli, una delle eccellenze del pensiero del Mezzogiorno, rischia di rimanere chiusa in un magazzino di Casoria: sono trecentomila volumi dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, fino ad oggi allocati in locali di fortuna nei pressi di Palazzo Serra di Cassano a via Monte di Dio, che stanno per essere stipati in qualche cantina, inaccessibili a studenti e ricercatori. L’Istituto non riceve più fondi dal Governo e non è in grado di sostenere ulteriori fitti, mentre la delibera regionale per la realizzazione di una biblioteca “dedicata” giace dimenticata.

Intanto un costone del muro Valdier lungo 9 metri e profondo 20 centimetri è crollato dal rivestimento del Pincio, a Roma, aggiungendo prestigiose macerie a quelle di Villa Adriana e di Pompei.
E nel silenzio della calura d’agosto rotta solo dal ronzio delle mosche insidiate dall’aria condizionata e dalle intemperanze verbali del governo, i tecnici sbriga-faccende hanno disposto la privatizzazione di uno dei maggiori Musei italiani – la Pinacoteca statale di Brera – nel segno della continuità con le fruttuose visioni di Giuliano Urbani intellettuale usignolo berlusconiano, contro cui insorsero i direttori di tutti i maggiori musei del mondo. Ma l’odierno Attila deve essere più gradito ed accettabile dei vecchi re incivili e efferati: quello che non era riuscito al dinamico Urbani o al molle Bondi viene concesso senza opposizione a Ornaghi in contemplativa e remota ammirazione del nuovo sacco d’Italia, ad opera del volitivo Passera insieme a Monti coi ministri dell’Economia, dello Sviluppo economico, della Giustizia, delle Politiche agricole, della Cooperazione e del Turismo, tutti amorevolmente concertanti e impegnati sul brand della barbarica rapina a beneficio di razziatori contemporanei.
Era stato un saccheggiatore imperiale, Napoleone, insieme al figliastro Eugenio di Beauharneis a creare il museo, conferendovi tesori provenienti da tutta Italia (Piero delle Francesca a Urbino, Raffaello a Città di Castello, Barocci a Ravenna. Che ora da testimonianza della grandezza del condottiero viene mutato in monumento alla magnificenza progressiva del mercato tramite la “Fondazione la Grande Brera” col compito di “valorizzare” e gestire condendole in uso mediante “assegnazione la collezione della Pinacoteca di Brera e dell’immobile che la ospita” (un sontuoso palazzo del Piermarini dal quale tempestivamente il commissario Mario Resca ha cacciato la più antica Accademia di Belle Arti).
Nella Fondazione di diritto privato “La Grande Brera” entreranno rappresentanti dei privati e degli Enti locali, che come per Della Valle nell’Anfiteatro Flavio potranno inserire acrobaticamente e fantasiosamente elementi di festosa animazione in tanto mortorio, cucina tipica, mescite, bric à brac, linee di art à porter, presentazioni di dinamiche Punto o Duna, “secondo criteri di efficienza economica”.

Lo so sono monotona, ma continuo a interrogarmi se sia costituzionale affidare ad una Fondazione privata un patrimonio pubblico formidabile per numero di tesori e per qualità, arricchito da dinastie di mecenati privati (soprattutto nel ‘900) illusi di rendere ancor più grande la principale Pinacoteca statale di Milano e della Lombardia.
E se sia davvero redditizio per un Paese che possiede i giacimenti d’arte, di paesaggio e culturali, metterli nelle mani di ragionieri superdotati di spocchia e sottodotati di buonsenso, che pensano che sia un vanto non investirci, curarli, tutelarli, nutrirli e farli crescere a beneficio di tutta l’umanità di oggi e di domani, bensì offrirli in comodato a qualche pescecane desideroso di un logo prestigioso o di una ambientazione esclusiva per le sue convention.
Ci faranno rimpiangere la prima Repubblica quando i ministri sentenziavano che i beni culturali erano il nostro petrolio. Ci faranno rimpiangere Napoleone, e anche Berlusconi che si rirtirò a tempo debito dall’operazione “Patrimonio SpA” e dalla privatizzazione obliqua del Museo egizio.

Il delirio del business culturale intanto investe la città più vulnerabile del mondo mostrando agli indigeni riottosi tre grandi occasioni come fossero collanine di perle luccicanti e colorate. E gli indigeni si chiedono perché, se vogliamo portare turisti a Venezia per mare, va fatto con meganavi superinquinanti che s’insinuano in città come altrettanti grattacieli. Perché, se vogliamo recuperare all’uso commerciale il Fondaco dei Tedeschi, dobbiamo violarne l’architettura. Perché Cardin non può, nei 250mila metri quadrati del parco che avrebbe a disposizione, edificare due, tre torri più basse, con la stessa superficie totale.

Anche loro che ne hanno viste tante e ben altri invasori calpestare i vecchi “masegni” non hanno capito che per il ceto dirigente il diligente oltraggio di Venezia non è una conseguenza non prevista dei progetti, ma il loro cuore e la loro finalità, che è essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce i sacerdoti della modernità quanto un laico irriducibile che si sottrae alle lusinghe della consegna a un credo o quanto una donna integerrima che non cede all’impenitente donnaiolo.
La profanazione, anzi l’ostensione esplicita della profanazione, ha la potente carica simbolica dell’imposizione di adeguarsi all’iper-modernità rampante e volgare. E’ la rivincita miserabile e dozzinale sul passato, l’umiliare e l’affronto alla bellezza attraverso l’oltraggio reso a Venezia, guardandola dall’alto di una mega-nave o di una superterrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo a Marghera. Ed è l’arrogante rivalsa dei soldi sulla luce dell’ingegno, del ricatto del profitto sui diritti: senza le mega-navi calano i turisti; per avere la mega-torre di Marghera e la mega-terrazza del Fondaco bisogna ubbidire al committente nell’infame e vergognoso silenzio delle istituzioni, dei decisori, dei nostri rappresentanti, mentre il sindaco Orsoni dichiara che «è assurdo mettersi di traverso a Cardin». Zaia lo paragone a Lorenza il Magnifico, il Comune agguanta la mancetta dell’altro sub-magnifico, Benetton, Passera viene invitato a intercedere sull’Enac, che la sicurezza di qualche volo è un sacrifico accettabile al dio denaro, cui si devono inchinare tutti, anche le maxi-navi, anche i cittadini, anche Venezia, anche la Costituzione.


Filed under: Anna Lombroso, Governo, Italia Tagged: Brera, Milano, Napoli, Roma, Venezia

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