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È lei, Keiko, la bellezza e la tristezza incarnate in questo romanzo di Kawabata: è lei che rappresenta la riscossa, il tempo che più non c'è, e che sembra volersi rifare sulla vita delle persone. Oki e Otoko hanno trovato comunque una strada, un modo per sopravvivere a quell'orgasmo di energia, a quell'eruzione che nasce da un incontro inaspettato e genera l'arte. Sono sopravvissuti entrambi al loro capolavoro esistenziale, adesso ne sono piegati a una posizione ancillare: sopravvivono in un loro postumo equilibrio. In loro qualcosa era morto, ma solo per cristallizzarsi in opera. Il proposito di vendetta che Keiko dichiara a più riprese sembra rivolto proprio a quest'incessante brama di farcela, di sapersi al sicuro dal proprio successo ormai assodato. Ancora più significativo, dunque, è che Taichiro, il figlio che Oki aveva già avuto dalla moglie al tempo della relazione con Otoko, sia un professore di letteratura, perso nella contemplazione delle opere e delle tombe di antichi poeti e dignitari di corte, ma allo stesso tempo fortemente attratto dal naturale splendore di Keiko.
La presenza dell'arte in Bellezza e tristezza è qualcosa di fondante. Il lettore non esperto si sente quasi un intruso in un discorso che va a fondo sulla ricezione della propria opera da parte di artisti intenti a interpretarla o almeno a richiamarla, direi addirittura a rievocarla, come si fa con i fantasmi. Romanzo estremamente sensuale e intriso di morte, di una profondissima noia esistenziale, Bellezza e tristezza di Kawabata Yasunari lascia un po' spaesati proprio per il suo continuo intento ermeneutico: i personaggi non fanno altro che parlare delle opere, valutarme il peso e il senso. Forse l'osservazione più puntuale e decisiva in termini estetici - nonché più pungente - la formula Fumiko, la moglie di Oki, quando lo rimprovera di non aver parlato di lei ne La sedicenne. Magari l'uomo aveva voluto mantenere intatta - e priva di vizi di sorta, come quello della gelosia - l'immagine dell'amata Otoko, idealizzarla: «Ma sei sicuro che i romanzi debbano mirare a tanta purezza?».
L'impressione d'insieme, a dispetto di una lingua che non di rado si eleva a poesia profondissima, è che qualcosa di importante sfugga. Non solo perché la traduzione ogni tanto si lascia scappare qualche svista, né per l'assenza del consueto (e, a mio parere, ancora indispensabile) glossarietto dei termini notevoli giapponesi, bensì perché dietro c'è tutta una riflessione estetica che, in assenza di una matura formazione culturale, rischia di suonare inutilmente didascalica, quando non addirittura ripetitiva, come se lo sforzo di recuperare questo capolavoro di Kawabata (premio Nobel per la letteratura nel 1968) non fosse riuscito appieno. E ciò è ancora più singolare, se si pensa alle incredibili assonanze che un libro del genere presenta con la letteratura europea del secondo dopoguerra. Probabilmente, se potessi tornare indietro io oggi mi avvicinerei a questo importantissimo autore da un titolo diverso.
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