di Carlo Camboni
Belluscone. Una storia siciliana è la storia di un regista travolto dall’incandescenza del materiale che cerca di maneggiare nonostante gli sfugga la possibilità di dare un ordine al caos, dimostrare una tesi al momento difficile da verificare: l’ex cavaliere Berlusconi fu aiutato economicamente dalla mafia ai tempi di Milano 2? Gli furono prestati venti miliardi per favorire la nascita delle sue televisioni? Maresco della ex premiata ditta Ciprì e Maresco cade nella depressione clinica generata dall’inconcludenza, l’indimostrabilità della tesi che vorrebbe analizzare, perché gli sfuggono i siciliani, emblema di un successo politico che tuttavia non è solo siciliano, e quindi gli sfuggono gli italiani, e il film conduce inevitabilmente alla considerazione di un fatto incontestabile: l’alieno Berlusconi, invece, gli italiani li ha sempre capiti perfettamente visto che i voti, mafia o non mafia, li prendeva al sud come al nord e al centro. Sarà Tatti Sanguineti, un detective tra Caronte e Sherlock Holmes, ad illuminarci sugli intenti del regista lungo un tortuoso percorso cinematografico la cui complessa elaborazione del girato ha concepito un film in divenire, fatto di interviste a un mefistofelico Marcello Dell’Utri assiso su un trono, di testimonianze stravaganti raccolte nei vicoli e nei comizi allietati oppure no da cantanti e canzoni neomelodiche, eccetera, il tutto in un quartiere palermitano che è un mondo a parte, un microcosmo immutabile culturalmente eppure vivacissimo e rappresentativo dell’influenza che televisione e potere sono in grado di esercitare sui cittadini per una manipolazione più svelta. Nello sbrogliare il bandolo della matassa ricercato da Sanguineti che insegue Maresco e nell’azzardo di voler per forza dare una definizione assoluta al film potremmo perderci a nostra volta ma possiamo tentare: “Belluscone” è un noir sulla rimozione per il modo in cui è narrato, ma anche un documentario, un’inchiesta politica, questo ed altro, ma soprattutto ci interessa l’evidenza di un documento autentico e ricco di informazioni, un frammento tra i tanti che i posteri analizzeranno con maggiori elementi storici di quelli attualmente in nostro possesso per cercare di interpretare e valutare un lungo periodo politico e culturale. Mai dimenticare, infatti, che Silvio Berlusconi in questo film è il grande assente, non appare se non per qualche secondo; a Maresco interessa semmai l’icona Belluscone, l’immaginario degli italiani stravolti dalla disinformazione e coinvolti in prima persona dalla possibilità dell’esistenza di un salvatore della patria, un quasi santo che tutto può in cui riversare sogni e speranze, senza ombra di disillusione.
Ebbene, in questo specifico momento storico Berlusconi è il grande rimosso perché nonostante il ruolo e il peso politico di un uomo che, piaccia o no, rappresenta elettoralmente ancora un terzo degli italiani, la sua presenza nei media è evidentemente sottodimensionata rispetto al suo reale potere. E nel film il richiamo a Matteo Renzi che appare in immagini di repertorio di qualche mese fa ospite di Maria De Filippi, sembra suggerire una sorta di continuità gattopardesca e restituire la mancanza di speranza di un regista che vede il perpetuarsi del potere sempre apparentemente diverso eppure eternamente uguale a se stesso, quanto basta per lasciare un film incompiuto o gettarsi nel vortice del neomelodico come ultima spiaggia nei pressi della dimenticanza, pena la depressione. Emerge tra le tante la figura dell’impresario Ciccio Mira, un organizzatore di spettacoli la cui faccia è così cinematografica da regalare momenti di rara e inconsapevole comicità; la sua mimica facciale quella sì, tipicamente siciliana, il dire con un impercettibile movimento del sopracciglio, il non dire col restringimento delle labbra, un attore consumato; ecco, Ciccio Mira, col suo sottobosco di piccoli lavori e il suo riferirsi in un’intervista a quei pilastri di cemento colmi di cadaveri più o meno dimenticati, può essere l’idolo di tutti coloro che ancora pensano che la mafia dia lavoro e dunque sia preferibile allo Stato, alle forze dell’ordine. E in questo gioco di ipocrisie invincibili e inarrivabili si inserisce la più grande menzogna, quella culturale, quella degli uomini piccoli che si ritengono depositari di almeno una verità, tutti i Ciccio Mira immaginabili da Trento a Catania, quelli della mafiosità spicciola che, per dirla con Busi, sono “lo zoccolo duro su cui giostra l’intero cavallo di Troia della mafia nazionale”.
Intanto Franco Maresco non si è palesato alla 71^ mostra del Cinema di Venezia alla presentazione del film per evitare strumentalizzazioni giornalistiche ed alimentando così il mistero sul “che fine ha fatto?” evocata dal Sanguineti accorso dalla nebbiosa Milano in cerca del regista. Una scelta voluta e apprezzabile, come quella di lasciare un segno ai posteri, la testimonianza degli italiani ripresi nel loro quartiere, nelle loro strade; un po’ come fece, consentitemi la divagazione, Pasolini coi suoi meravigliosi Comizi d’amore, così eversivi per l’Italia degli anni Sessanta che iniziava a corrompersi corrompendo le menti mentre imboccava proprio in quegli anni la strada del consumismo: eppure esiste tra i comizianti bellusconiani e gli intervistati del grande poeta un comune denominatore, l’ignoranza allora come ora, un’ignoranza diffusa e, a questo punto, invincibile e voluta.
Carlo Camboni
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Cover Amedit n° 20 – Settembre 2014, “VE LO DO IO” by Iano
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