
Ritorniamo a parlare del Benin e di certe credenze ancestrali che purtroppo, specie nel nord del Paese, sono dure a morire e arrecano ancora oggi molto “male” e sofferenza.
Premettiamo subito che il 30% della popolazione beninese , in seguito all’evangelizzazione praticata sul territorio dalle differenti di congregazioni missionarie europee, nate per l’Africa, professa la religione cattolica.
E non è un numero irrilevante, considerando la difficoltà di penetrazione del Vangelo, specie agli inizi.
Invece il 10% appartiene ad altre confessioni cristiane quali quelle protestanti; mentre il 25% è musulmana, con un residuo del 6% di religioni locali tradizionali ma ben radicate.
E sono quest’ultime, quelle che noi definiamo credenze, concentrate soprattutto nella parte settentrionale e , in particolare, in quelli che sono i cosiddetti villaggi rurali.
E sono anche quelle stesse che alimentano, purtroppo, drammi umani terribili se non ci fossero interventi mirati di uomini e di donne di buona volontà che, in qualche modo,con intelligenza provano a limitarne il numero e le spiacevoli conseguenze.
Parlo di quel fenomeno che sono i “bambini stregoni”.
E’ un dramma, beninteso, che non riguarda solo il Benin in Africa.
Il Congo, ad esempio, è il territorio emblematico in cui l’abbandono di bambini “diversi” raggiunge cifre inimmaginabili.
Ma lo stesso accade in Tanzania con gli albini oppure in Burundi o Rwanda con i parti gemellari.
Sta di fatto che in Benin, quando in uno dei villaggi di poveri contadini o di modestissimi artigiani del nord una donna partorisce un neonato, che si presenta alla luce con i piedi e non con la testa (appunto quello che noi diciamo “bambino podalico”), il bimbo, considerato apportatore di sciagure per la comunità, è immediatamente allontanato e abbandonato a se stesso.
Questo significa che può morire di stenti in foresta o divenire,com’è inevitabile, pasto di animali della zona.
Ecco, allora, che alcune diocesi cattoliche (Parakou e Natitingou,ad esempio) e, quindi le rispettive parrocchie, sparse sul territorio, intervengono accogliendo, per quanto possibile, questi bambini in qualcosa di somigliante, in piccolo, alle nostre case-famiglia.
Qui i bambini sono allevati ed istruiti, usufruiscono di un tetto sulla testa e di pasti regolari. E ,poi, imparano sopratutto un mestiere.
Si fa in modo, inoltre, che la sistemazione non sia logisticamente troppo distante dal villaggio d’origine in modo che, una volta adulti, i ragazzi o le ragazze vi possano fare ritorno.
E dimostrare tanto alla propria famiglia che alla comunità intera che sono normali persone come tutte le altre.
E’ un impegno serio e gravoso quello che si accollano le parrocchie del Benin ma salvare vite umane e sconfiggere pregiudizi e ignoranza nell’Africa d’oggi è una priorità intramandabile.
Un sfida umana e (volendo)molto possibile, che occorre provare a vincere , per farla finita anche con l’emigrazione forzosa ,e spesso dannosa, della gioventù del luogo.
La povertà del Benin, infatti, caratterizzata da un’economia di appena sussistenza ( modesta agricoltura- coltivazione del cotone- commercio solo regionale) ha prodotto nel sud del Paese una forte urbanizzazione ( Cotonou - Porto Novo- Ouidah ), molto più elevata di quella dei vicini Stati confinanti.
E, pertanto, ha creato un enorme squilibrio politico e sociale che, così continuando, gioca assolutamente a sfavore della sua crescita e del suo sviluppo.
E il primo nemico dello sviluppo, è noto da sempre, è senza dubbio la mancanza d’istruzione e di conoscenza.
Questo, allora, è il nervo scoperto del Benin su cui intervenire.Tutti. E a prescindere.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)





