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Benin /Il dramma dei bambini "podalici"

Creato il 07 febbraio 2013 da Marianna06

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Ritorniamo  a parlare del Benin e di certe credenze ancestrali che purtroppo, specie nel nord del Paese, sono dure a morire e arrecano ancora oggi molto  “male” e sofferenza.

Premettiamo subito che il 30% della popolazione beninese , in seguito all’evangelizzazione  praticata sul territorio dalle differenti di congregazioni missionarie europee, nate per l’Africa, professa la religione cattolica.

E non è un numero irrilevante, considerando la difficoltà di penetrazione del Vangelo, specie  agli inizi.

Invece il 10% appartiene ad altre confessioni cristiane quali quelle protestanti; mentre il 25%  è musulmana, con un residuo del 6% di religioni locali tradizionali  ma ben radicate.

E sono quest’ultime, quelle che noi definiamo credenze,  concentrate  soprattutto nella parte settentrionale e , in particolare, in quelli che sono i cosiddetti villaggi rurali.

E sono anche quelle stesse che alimentano, purtroppo, drammi umani terribili se non ci fossero interventi mirati di uomini  e di donne di buona volontà che, in qualche modo,con intelligenza provano a limitarne il numero e  le spiacevoli conseguenze.

Parlo di quel fenomeno che sono i “bambini stregoni”.

E’ un dramma, beninteso, che non riguarda  solo il Benin in Africa.

 Il Congo, ad esempio, è il territorio emblematico in cui l’abbandono di bambini “diversi” raggiunge cifre inimmaginabili.

Ma lo stesso accade in Tanzania con gli albini oppure in Burundi o Rwanda con i parti gemellari.

Sta di fatto che in Benin, quando in uno dei villaggi di poveri contadini o di modestissimi artigiani del nord una donna partorisce un neonato, che si presenta alla luce con i  piedi e non con la testa (appunto quello che noi diciamo “bambino podalico”), il bimbo, considerato apportatore di sciagure per la comunità, è immediatamente allontanato  e abbandonato a se stesso.

Questo significa che può morire di stenti in foresta o divenire,com’è inevitabile, pasto di animali della zona.

Ecco, allora, che alcune diocesi cattoliche (Parakou e Natitingou,ad esempio) e, quindi le rispettive parrocchie, sparse sul territorio, intervengono accogliendo, per quanto possibile, questi bambini in qualcosa di somigliante,  in piccolo, alle nostre case-famiglia.

Qui i bambini  sono allevati ed istruiti,  usufruiscono di un tetto sulla testa e di pasti regolari. E ,poi, imparano sopratutto un mestiere.

Si fa in modo, inoltre, che la sistemazione non sia logisticamente troppo distante dal villaggio d’origine in modo che, una volta adulti,  i ragazzi o le ragazze vi possano fare ritorno.

E dimostrare tanto alla propria famiglia che alla comunità intera che sono normali persone come tutte le altre.

E’ un impegno serio e gravoso quello che si accollano le parrocchie del Benin ma salvare vite umane e sconfiggere pregiudizi e ignoranza nell’Africa d’oggi è una priorità intramandabile.

Un sfida umana e (volendo)molto possibile, che occorre provare a vincere , per farla finita  anche con l’emigrazione forzosa ,e spesso  dannosa, della gioventù del luogo.

La povertà del Benin, infatti, caratterizzata da un’economia di appena sussistenza ( modesta agricoltura-  coltivazione del cotone- commercio solo regionale) ha prodotto nel sud del Paese una forte urbanizzazione ( Cotonou - Porto Novo- Ouidah ), molto più elevata di quella dei vicini Stati confinanti.

E, pertanto, ha creato un enorme squilibrio politico e sociale che, così continuando, gioca assolutamente a sfavore della sua crescita e del suo sviluppo.

E il primo nemico dello sviluppo, è noto da sempre, è senza  dubbio la mancanza d’istruzione e di conoscenza.

Questo, allora, è il nervo scoperto del Benin su cui  intervenire.Tutti. E a prescindere.

 

   a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)


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