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Probabilmente Benmont Tench è il più robusto tastierista che abbia mai militato in un gruppo rock americano, e certamente lo è fra quelli attuali. Non mi viene in mente nessuna band con un tastierista così significativo nel suono collettivo. Non i Grateful Dead, che di tastieristi ne cambiarono parecchi per causa di forze maggiore, non gli Allman che con Chuck Leavell cercarono di sostituire la chitarra di Duane. Forse la E Street Band che si appoggiava sulle due colonne di Danny Federici e di Roy Bittan. Magari i Traffic, dove le tastiere erano lo strumento del frontman Steve Winwood. Beh, May Manzarek, naturalmente.
Ad assistere allo show degli Heartbreakers di Tom Petty non si può che rimanere ammaliati dal lavoro di Tench, letteralmente circondato ad ogni lato dalle tastiere di piano ed organo. Se Mike Campbell è il Jimmy Page della situazione e Tom il McGuinn, Tench è il telaio della band. Gli Heartbreakers si sa, almeno dalla rifondazione di Damn The Torpedoes del 1979 sono la backing band di Tom Petty. Ma ci fu un tempo in cui non era così. Nacquero a Gainsville in Florida, la città dei Flying Burrito Brothers, come un gruppo con il nome di Mudcrutch, una band che forse arrivò in anticipo rispetto al ritorno del rock degli anni della new wave, che poi furono anche quelli di Springsteen, Greg Kihn, Graham Parker, John Hiatt. Nella band di Petty il ruolo creativo del resto del gruppo fu sacrificato a favore di quello del leader, autore di praticamente tutte le canzoni, con un piccolo aiuto dell'effervescente chitarrista ma non di Tench che è un tipo che tiene un basso profilo. Così nel corso di tutti questi anni il tastierista ha scritto un pugno di canzoni che ha però tenuto nel cassetto. Una è finita di recente nel disco dei Mudcrutch, altre erano nate allo stesso scopo fino a che l'idea di un disco solista ha cominciato a prendere forza. È stato Glyn Johns a convincere Tench a rompere gli indugi: un produttore non invadente che però negli anni ha legato il suo nome a dischi come Who's Next, Desperado, Show Some Emotion, Slow Turning. La casa discografica è straordinariamente la Blue Note, la storica etichetta jazz, il che assieme alla foto di copertina porta a immaginare che si possa trattare di un disco di musica jazz. Niente del genere, l'unico motivo della scelta è che il nuovo presidente della Blue Note è Don Was, il patinato produttore americano.
In realtà il suono di You Should Be So Lucky è quello roots rock delle origini di Tench: Mudcrutch, Flying Burrito Brothers e quelli che questo suono l'hanno inventato, The Band. Benmont Tench non è un cantante e la sua voce è delicata fino alla timidezza. Glyn Johns è stato molto rispettoso di questa caratteristica, che con ogni evidenza è parte del carattere low profile del musicista, ed ai primi ascolti l'impressione è quella di una costruzione molto delicata, leggera come un aliante, dove si sarebbe potuto osare di più in termini di ritmica più aggressiva, arrangiamenti più pieni e soprattutto fornendo alle voce di Tench, che spesso richiamano gli impasti bucolici di The Band, il supporto del coro di voci di valore.
Ma spesso sono i lavori migliori quelli che non si lasciano svestire al primo ascolto ma crescono giorno dopo giorno. La trama lieve, delicata e sapiente delle tastiere, gli arrangiamenti così rispettosi da portare alla mente persino un altro musicista di quelle parti, JJ Cale, prendano forma mano a mano che ci si lascia pervadere dal loro incantesimo.
Il primo pezzo a commuovere è il traditional di Corrina Corrina, lo stesso del repertorio di Dylan che è stato interpretato anche da Boz Scaggs nel suo disco dello scorso anno. La versione di Tench è un gioiello delicato, grazie ad un incastro di tastiere che paiono di cristallo. Poi la title track, "avresti potuto essere così fortunato", un titolo molto Petty, che è la canzone più differente, una sorta di inno da garage band che potrebbe risalire ai 13th Floor Elevator o ai gruppi di Nuggets, un brano che nel repertorio degli Heartbreakers farebbe un figurone. Blonde Girl In A Blue Dress è una ballatona dal ritmo loose su cui ameresti sentire i cori di Levon Helm e compagnia. Una canzone definitivamente da The Band. Today I Took Your Picture Down, "oggi ho tolto la tua fotografia", è un etereo lento malinconico molto heartbreakers con un gran impasto fra il piano e l'organo con cui singolarmente si apre l'album mentre è una di quelle canzoni con cui di solito i dischi si chiudono. Veronica Said paga l'ispirazione al riff di Fire di Springsteen, mentre Ecor Rouge è un tenue intermezzo strumentale vagamente jazzato come li faceva Van Morrison. Bello il boogie antico di Woobles e l'inno californiano di Like The Sun.
Un disco di valore con dentro l'anima, capace di comunicare ed emozionare specie l'ascoltatore che arriva da un rock americano di tanti anni fa. Mi piacerebbe sentire le stesse canzoni suonate da una band e non da session man.
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