In concorso al 33° Bergamo Film Meeting, Gente de bien è un lungometraggio carico di suggestioni, nel mostrare stili di vita e contraddizioni sociali presenti in una metropoli dell’America Latina, ma non privo di qualche ambiguità nelle modalità di (ri)scrittura e rappresentazione del reale, che si proverà ad analizzare strada facendo.
Bogotà, in Colombia, è la cornice di tale racconto cinematografico; un racconto, peraltro, il cui asse diegetico si snoda con una certa agilità tra gli ambienti poveri della periferia e quelli in cui vive gente decisamente più altolocata. La premessa da cui si muove il film, configurato quale scarno romanzo di formazione sin dalle battute iniziali, coincide con quella situazione poco simpatica in cui si viene a trovare lo sbandato Gabriel, quando l’ex compagna altrettanto in difficoltà si decide ad affidargli nuovamente il figlioletto Eric, bimbo di appena 10 anni (ma già abbastanza disinvolto, per l’età) apparentemente abituato a essere sballottato da una parte all’altra.
I due sono costretti a vivere in una dimora umile, precaria, ai confini dell’indigenza. Ben presto una serie di dilemmi etici comincia ad attanagliare l’improvvisato genitore, determinato per certi versi a migliorare la condizione miserevole in cui è costretto a far vivere anche il figlio, ma restio (più per motivi di orgoglio o per dignità personale? Già qui la distinzione appare piuttosto sfumata) ad accettare i troppi aiuti a loro concessi dalla signora Maria Isabel, una ricca borghese presso la cui famiglia l’uomo presta occasionalmente servizio.
Un ripetuto invito della signora a trasferirsi temporaneamente nella loro spaziosa villa delle vacanze farà poi esplodere le piccole tensioni colte precedentemente nell’aria…
Il film di Franco Lolli, colombiano che ha studiato regia a Parigi, rivela senza dubbio una mano felice nelle descrizioni ambientali, il cui piglio movimentato e realistico assicura una notevole veridicità alle riprese. Particolarmente pregnante è anche il modo di pedinare i personaggi nell’ozio e nelle discussioni della ricca dimora borghese, dando vita a un quadretto che per certi aspetti (tematici ma anche stilistici) ci ha fatto pensare al cinema dell’argentina Lucrecia Martel. In particolare La ciénaga (2001) e La niña santa (2004).
Più altalenante ci è sembrata la tenuta narrativa del film. Interessante è il modo in cui vengono introdotti i conflitti di classe, meno quello in cui vengono risolti. Per quanto lo script dia l’idea di voler evidenziare l’ipocrisia di fondo, che si cela dietro a certi gesti generosi, dal mix di esagerato permissivismo della padrona casa, atteggiamenti più scocciati e guardinghi da parte degli altri famigliari o dei loro amici ricchi, reazioni esageratamente scomposte del protagonista, esce fuori un impasto non del tutto coerente e incisivo. Tirando le somme: è uno sguardo a tratti acuto sui rapporti di classe in America Latina, quello abbozzato nel film colombiano visto a Bergamo, ma che poteva essere approfondito meglio.
Stefano Coccia