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La mujer de barro
Taxi di Jafar Panahi. Concorso. Voto 7+
Queen of the Desert di Werner Herzog. Concorso. Voto 6 e mezzo
45 Years di Andrew Haigh. Concorso. Voto tra 6 e il 7
K di Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag. Mongolia/Cina. Sezione Forum. Voto 6+
Sono andato a vederlo semplicemente perché era l’unica proiezione stampa a quell’ora. La sinossi mi aveva scoraggiato. Figurarsi, Il castello di Franz Kafka rivisto e rifatto nella Mongolia di oggi. Mi aspettavo una di quelle cose tremendamente arty e sussiegose e leccatissime, come capita spesso nel cinema dei pasi extroccidentali quando vuol mostrarsi all’altezza, quando insomma vuol fare il cinema international da festival. Invece grazie a Dio K non è pretenzioso, e il suo Kafka lo traduce in climi mongoli con naturalezza e senza troppe forzature. Con un andamento qua e là da commedia tra l’etnico e l’assurdo niente male. Un tizio che dichiara di essere stato nominato supervisore dal Castello si presenta al villaggio, ma naturalmente il Castello è inaccessibile, nessuno gli ha rilasciato validi documenti, pochi gli credono, lui è costretto ad aspettare e aspettare. Resterà impaniato in un groviglio di funzionari, potenti corrotti, ragazze pronte o costretti a vendersi al più forte. Con qualche invenzioncina mica male, come la coppia di scemi che fan da assistenti al protagonista, un bibì e bibò un po’ tenai dalpmosessalità e dai triangoli. Tutto in una locanda poverissima. K si lascia guardare, nonostante sia verbosissimo. Sarà per questo che son scappati in tanti dalla sala (di sicuro a oggi è il film con più fughe di questa Berlinale). Pensare che è riuscito a evitare tutti i manierismi del kafkiano (e mentgre lo vedevo, mi veniva in mente Il processo di Orson Welles da Kafka che mi son visto giusto due settimane fa all’Oberdan di Milano).
Dora or Die sexuelen Neurosen unserer Eltern (Dora o le nevrosi sessuali dei nostri genitori) di Stina Werenfels. Svizzera. Sezione Panorama Special. Voto 2
Un film ignobile. Che si inserisce nel genere, ormai affollato, di sesso & disabilità, ovviamente all’insegna del proclama politicamente correttissimo che tutti han diritto alla loro quota di soddisfazione erotica. In particolare, questo svizzero di area tedescofila Dora tratta di disabilità psichica, e arriva nel campo sulla scia del canadese Gabrielle (appena discreto) e dell’italiano The Special Need (insomma). Ariva dopo e si colloca al punto più basso della graduatoria. Difficile non imbarazzarsi e anche incacchiarsi di fronte a questa storia messa in scena da una giovane regista (presente ieri sera in sala) con una rozzezza e una grevità inaudite, sempre al riparo dell’alibi di cui sopra. Dora ha 18 anni, ha genitori amorevoli, viene assistita in una casa spciela insieme ad altri portatori di un qualche svantaggio mentale. Ma c’è, inevitabile, il richiamo del sesso. Ha ormai 18 anni, Dora, e un giorno insegue per strada un tizio che le piace, lo segue con l’ingenuità che è sua, del suo modo di faire, lo segue fino a un cesso della metropolitana, e lì lui la violenta. Quando i genitori se ne rendono conto vogliono denunciare il tizio, ma Dora lo incontra di nuovo, e ancora e ancora, e senza esserci costrtta. Fare sesso con lui le piace, finché rimane incinta. Abortisce. Ma riprende a vedere il torvo tizio dall’aria pericolosamente gangsteristica, e i genitori non san più che fare. Una storia che nelle mani di autori attenti sarebbe potuta divetare importante. Qui siamo solo a uno spettacolo greve, con cose che davvero proprio non si poson fare (come la sciagurata sequenza al burlesque, o lui che la invita a fargli il bow job dicendole ‘è come leccare il gelato’). Devo dre che il pubblico berlinese ha applaudito assai deboimente, e meno male. Non ho assistito all’annunciato dibattito con la regsita, son scappato via subito.
La mujer de barro (La donna di fango) di Sergio Castro San Martin. Cile. Sezione Forum. Voto 7
Tristi storie alla Dardenne,. Del resto si sa, in ogni festival si vedono almeno (almeno) dieci film che discendono in diretta dal loro cinema. Vite derelitte, ambienti squallidi quando non sordidi in cui ogni pietà l’è morta, e dove regnano la sopraffazione e l’arbitrio. Oggi, nel Cile settentrionale. Una povera donna ha lasciato là sulle montagne la figliola (è una madre single, ovvio) per andare giù nelle vallate a fare la vendemmia, un lavoo che son solo donne a farlo, come le mondine di Riso amaro. E qualcosa di quel lontano ma seminale film di De Santis si ritrova anche qui. La solidarietà e le rivalità tra le sventurate compagne di lavoro, i soprusi dei capi, la durezza del gorno dopo giorno, i pochi momenti di riposo e di festa. Per quasi un’ora il regista (presente in sala, un ragazzo sui trent’anni) pedina con la solita machina a mano la sua protagonisra Maria, ne registra i gesti quotidiani, le pene, le telefonate alla figlia, le scarne parole con l’amica Violeta. Maria non parla quasi, è un mulo da lavoro, con il solo obiettivo di mettere da parte dei soldi. Poi succede qualcosa, qualcosa che la segna e che la cambia, una violenza sessuale. Uno di quei film che registrano l’umanità al punto più basso della scala sociale e al più alto di disagio e sofferenza. Cinema poveristico, molte volte ricattatorio e insostenibile in quanto, anche, cinema del piagnisteo (nel senso della cultura del piagnisteo secondo Hughes). Ma stavolta non è così, stavolta non possiamo non commuiverci e indignarci per la storia di Maria. Peccato per un finale indeciso e balordo, che rischia di rovinare il moltissimo di buono che si era visto prima. Però avercene.