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Berlinale 2016. Recensione: ZERO DAYS. La guerra dei virus (informatici)

Creato il 20 febbraio 2016 da Luigilocatelli

201608480_3Zero Days, un docufilm di Alex Gibney. Competizione.
201608480_5La nuova frontiera dela guerra? I bugs informatici per sabotare le reti del nemico. Tutto è cominciato con Stuxnet, messo a punto da Usa con fattiva collaborazione di altri paesi per mandare fuori uso un impianto nucleare iraniano. Zero Days ricostruisce la vicenda e lancia l’allarme sul futuro. Molto documentato, molto informato, ma con quel che di paranoico che distingue sempre il cinema urlato di denuncia. Un film che potrebbe fare molta strada nella prossima stagione dei premi. Voto 5
201608480_1Altro che boots on the ground. La prossima guerra sarà ancora più immateriae e pulita (sempre che di guerre pulite si possa parlare) di quella dei droni, perché praticata con la micidiale arma del malware, virus e bug informatici vari volti a sabotare l’apparato militare del nemico. Apparato ormai dipendente, come gran parte della nostra vita di pace, dalle reti informatiche, ramificatissime, capillari, onnipervasive, dunque attaccabili e sabotabili in più modi. Anzi, la guerra per mezzo del malware è già cominciata qualche anno fa, anche se non ce ne siamo accorti, anche perché ce ne hanno tenuto all’oscuro. Questo film dal titolo apocalittico dello specialista in documentari assai premiati Alex Gibney – suo anche l’informatissimo, molto accurato, ma survoltato e sovreccitato docu dell’anno scorso su Scientology Going clear – ci spiega tutto, ci ridesta dai nostri sogni ignoranti, ci avverte delle guerre informatiche prossime venure e suona l’allarme. Allineandosi a quei film del reale, e sono tanti ormai da costituire un genere, che vogliono avvertirci dei pericoli in cui il mondo e le nostre vite stanno incorrendo, aprirci gli occhi, scuotere le coscienze assopite con uno shock che gli autori e supporters dei suddetti docu giudicano necessari e salutari. Da Michael Moore in giù è tutto un dirci che c’è sempre un Grande Oscuro Nemico al lavoro contro di noi, mitologizzato come e più della jamesbondiana Spectre. Mi sarà concesso dire che questo genere cinematografico molto riverito e ritenuto politicament importantissimo in quanto denunciante i mali del potere io invece l’ho sempre trovato un filo paranoico? Che è anche il motivo per cui questo Zero Days, peraltro di accurata fattura e documentazione come sempre in Gibney, non mi è piaciuto. Dunque: qui si racconta con abbondanza di dettagli tecnici e il contributo di una vasta quantità di esperti e testimoni da molti pesi l’invenzione e l’utilizzo di una cosa chiamata Stuxnet, un bug messo a punto nei più segreti laboratori Usa, se ricordo bene della NSA, col fattivo e decisivo contributo di Regno Unito e di Israele. Obiettivo, sabotare gi impianti nucleari iraniani – erano i tempi del molto minaccioso e pochissimo moderato presidente Ahmadinejad – prima che da quelle parti potessero andare dritti verso l’atomica. In particolare, con lo Stuxnet l’obiettivo era di far impazzire le centrifughe delle centrali. Così accadde. Nel 2010 l’impianto iraniano di Natanz subì un sabotaggio, anche se ufficialmenta da parte occidentale nulla è stato comunicato. C’entravano gli Stati Uniti o, come lascia intendere qualcuno nel film di Gibney, era stato Israele unilateralmente a riccorrere allo Stuxnet, ribattezzato Olympic Games? Per Gibney quello è comunque da consierarsi l’inizio della nuova era della gurra per mezzo di malware. Il film insiste molto, per voce dei suoi contributors, sui pericoli immani che si stano addensando sopra le nostre teste. Si dipingono scenari foschissimi, si invocano accordi e regolamentazioni internazionale per disciplinare l’uso di questo nuovo tipo di armi, come si è fatto in passato per quelle nucleari e chimiche. Con l’aggravante, secondo Zero Days, che i bug informatici possono sfuggire all’apprendista stregone e, una volta messi in circolo, diffondersi ben al di là degli obiettivi militari. E allora via con l’evocazione di scenari terrificanti: reti idriche sabotate, reti di trasporti ed elettriche, pipelines di gas e petrolio. Signora mia, la fine del mondo è alle porte e non ce ne siamo accorti, e per fortuna che c’è il cinema a suonare l’allarme. Ora, io non voglio sottovalutare i pericoli, e però non mi piace la pornografia del catastrofismo, quel titillare le nostre peggio paure. Questo è un tipo di cinema che non amo, cinema che non parla ma urla, che più che all’analisi e al confronto ragionato tende allo shock indotto. Che poi, Dio mio, si potrà pure parlare di bug e informatica al cinema inventandosi una qualche comunicazione visiva che non siano le solite sdatatissime videate e schermate più o meno luminescenti e lampeggianti. Poi, quando Gibney per farci capire la potenza sabotatrice di Stuxnet ci mostra un palloncino che, causa bug, si gonfia e stragonfia fino a scoppiare, mettendo in sovrimpressione nientedimeno che con il fungo atomico, cascano le braccia, ecco. Perché anche il cinema cosiddeto di denuncia e di impegno deve avere un suo senso della misura, un suo stile. Nturalmente a chi tocca la parte del villain in tutta la costruzione narrativa? A Israele,ovvio, e la cosa un po’ dovrebbe farci riflettere. Molte indignazioni in sala e fuori sala quando Zero Days rivela, o ricorda, che non solo la ricerca sulle nuove armi d’offsa informatiche non è stata bloccata negli Stati Uniti dalla presidenza Obama, ma anzi incentivata con stanziamenti prima mai visti. A pensarci bene, non è tanto strano, essendo in linea perfettamente con il ripudio della guerra fisica, materiale, concreta, quella per l’appunto degli stivali sul terreno, che Obama ha ttivamente perseguito per privilegiare la guerra pulita, invisibile, in guanti bianchi. Quela dei droni e adesso dei malware.


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