Berlino è stata definita da Vittorio Sgarbi “un cesso di città, bombardata e senza nient’altro“. Ma è veramente soltanto questo?
Tornato da Berlino – di cui su questo giornale abbiamo già avuto modo di parlare con un’intervista di Piotr Zygulski a Luigi Filippo Palazzini Finetti – ancora mi riecheggia nella mente il giudizio di Vittorio Sgarbi che la definì “un cesso di città, bombardata e senza nient’altro”. In effetti, Berlino per essere una metropoli europea – anzi, direi, la metropoli – lascia un po’ a desiderare, e non ci si spiega come folle di turisti provengano da tutto il mondo per visitarla.
Probabilmente il giudizio è un po’ ingeneroso, ma è incomprensibile che una città come Berlino possa superare, ad esempio, Roma. Eppure è così: secondo il Wall Street Journal la città tedesca avrebbe scalzato Roma dal terzo posto di città più visitata in Europa e vedrebbe crescere sempre di più il numero dei propri turisti con conseguenze notevoli anche sul settore alberghiero. La risposta che mi sono dato, conoscendo entrambe le capitali, è che Berlino – città accogliente, tollerante e rispettosa delle regole – sa sfruttare bene quel poco che ha (basti pensare alla cosiddetta “Isola dei musei”), mentre se rifletto sulla Roma di oggi vedo una città impegnata a salvare se stessa dal dissesto finanziario, perciò disinteressata alla salvaguardia del suo immenso patrimonio storico. Un degrado politico che inevitabilmente si traduce in degrado culturale e ambientale, come a Pompei, tanto da far dire a Corrado Augias, uno che la città la conosce bene, che “Roma rischia il fenomeno che colpiva i ghetti neri delle città americane negli anni passati. Più il quadro era degradato, più gli stessi abitanti si adoperavano per peggiorare la situazione, una specie di furia autodistruttiva talvolta conclusa da una rivolta”.
Detto questo, il giudizio di Sgarbi è eccessivo; Berlino è sì una città bombardata, che è stata letteralmente devastata durante la Seconda guerra mondiale (e tracce di questo devasto si trovano ovunque), ma comunque degna di rispetto: è l’incarnazione di una storia, forse la più tragica, per l’esperienza dei totalitarismi e del Muro, ma senza dubbio la più recente perché è simbolo dei disastri di un secolo – il Novecento – che abbiamo appena lasciato alle spalle. E questa storia può ancora essere respirata e anche vista coi propri occhi se si mette piede in Pariser Platz, dove vicino alla storica Porta di Brandeburgo si trovano le ambasciate degli Alleati.
Apparentemente potrebbe essere definita una città “senza identità”, e per certi versi lo è, non ha un’identità definita che la contraddistingue, ma è proprio qui che, a mio parere, sta la sua peculiarità: nell’avere una identità in costruzione, non stabilita una volta per tutte, che la costringe a mettersi in gioco, a riprogrammarsi continuamente. “Una città che non è, ma continuamente diventa”, scrive Mario Fortunato nel suo ultimo romanzo Le voci di Berlino. E non è azzardato dire che proprio in questo sta il suo successo. Ciò è plasticamente visibile nei tanti cantieri che affollano la città lavorando ininterrottamente (in contraddizione con il silenzio che si prova nei sentieri boscosi dietro la porta di Brandeburgo) e nelle costruzioni moderne che ne danno forma, ognuna diversa dall’altra, trionfo dell’individualismo di ogni architetto e di concezioni artistiche differenti (da Aldo Rossi a Daniel Libeskind).
Ma architettura contemporanea e ricordo spesso si intrecciano: basta spostarsi di poco dalla Porta di Brandeburgo, e proseguire sino alla strada dedicata ad Hannah Arendt, per vedere il “Memoriale degli ebrei assassinati d’Europa” progettato nel 2005 da Peter Eisenman: una distesa di più di 2700 stele grigie (anonime, come fa notare criticamente Maurizio Ferraris nel suo Lasciar tracce: documentalità e architettura) da fuori di simile altezza, ma che in realtà poggiano su di un fondo inclinato e portano il visitatore a immergersi al loro interno. Opera (anche se Eisenman lo nega) profondamente influenzata da una certa filosofia, dal decostruzionismo di Derrida in particolare, e che propone “non un oggetto da contemplare, ma un percorso da attraversare per rivivere anche emotivamente l’esperienza delle vittime”, come scrive Adachiara Zevi, in Monumenti per difetto, a proposito del monumento romano per ricordare l’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.Tralasciando Frank Gehry, autore della DZ Bank e del grande pesce, un altro importante decostruttivista è Daniel Libeskind, che ha progettato nel 2001 il più grande museo ebraico di Berlino e d’Europa dedicato alla storia degli ebrei in Germania. Di Libeskind è il secondo edificio, quello più recente, soprannominato “blitz” (fulmine) per la sua forma che ricorda una stella di David decostruita, che volutamente contrasta con l’edificio settecentesco di fianco con cui è collegato soltanto internamente. Battezzato dal suo autore “between the lines”, il progetto si fonda sulla composizione di tre corridoi, chiamati “assi”, che simboleggiano i destini del popolo ebraico: “l’asse dell’Olocausto”, che conduce verso la Torre dell’Olocausto, uno spazio lasciato vuoto e senza riscaldamento illuminato soltanto da una timida fessura in alto; “l’asse dell’Esilio”, che porta ad un giardino costituito da 49 colonne, sulla cui sommità alberi di olivagno simboleggiano la pace, in cui il visitatore è invitato a provare la stessa sensazione di disagio degli ebrei esiliati; e “l’asse della continuità”, che dà faticosamente accesso al museo fatto anche di spazi vuoti, come quello costituito da diecimila rumorosi volti d’acciaio, simbolo dei morti della Shoah.
Ferita – e passato – con cui i tedeschi (bisogna riconoscerlo) hanno imparato a fare i conti. Certamente meglio di noi.