Probabilmente questo post uscirà quando si saprà già della sentenza e sarà già cominciata la ridda delle ipotesi. Ma non è della condanna o assoluzione che voglio parlare, quanto di un’idea, di una tentazione che mi è venuta nell’attesa. So che si tratta di un pensiero eretico rispetto alla democrazia formale e tuttavia non riesco a scacciarmelo dalla testa: quello di una piccola Norimberga per le larghe intese, un modesto ma severo processo a chi ha distrutto il Paese per conservare il proprio potere e che pensa magari di cavarsela al massimo con la non rielezione.
Mi spiego: da due anni a questa parte, da quando arrivò la famosa lettera Draghi – Trichet stiamo vivendo in un proclamato stato di eccezione in nome del quale si è praticamente abolita la distinzione tra maggioranza e opposizione, si è lasciato che il presidente della Repubblica divenisse di fatto il primo ministro, si sono mandati al macero diritti acquisiti, si è violato il patto di cittadinanza, si è chiuso un occhio sulle manovre terzomondiste dei vari Marchionne, si è avvilito il lavoro, distrutto il welfare, accelerata la deindustrializzazione, svuotato e tradito il responso delle urne. E ora ci si appresta a svendere ciò che è rimasto e a manomettere la stessa Costituzione. Il tutto in nome di un’emergenza in gran parte inventata a Bruxelles da incompetenti figuri che nessuno ha eletto i cui presupposti sono stati letteralmente spazzati via ormai da un anno, dichiarati frutto di errori. Si è in sostanza abbandonato il governo reale del Paese, lasciandolo nelle mani di interessi finanziari o di altre nazioni i cui programmi sono in diretto contrasto con quelli dei cittadini italiani.
Ma se stato di eccezione deve essere non ci si può uscire come se nulla fosse, dicendo abbiamo sbagliato o abbiamo scherzato. Gli stati di eccezione che confiscano la democrazia terminano anch’essi solo con un’eccezione alla democrazia formale, ossia con l’impeachment dei responsabili: quelli che prima hanno impedito che fossero le elezioni a decidere del governo del Paese e che in seguito hanno usato le urne per cose del tutto contrarie a quelle che erano state prospettate. E’ facile vedere che non si tratta delle solite promesse mancate, ma di un vero e proprio uso ingannevole del voto che ha coinvolto le istituzioni e un intero ceto politico. Né si possono invocare come attenuanti le “circostanze” nel momento stesso in cui si invoca una “necessità” che da fasulla quale era due anni fa è divenuta ormai una provocazione all’intelligenza e al buon senso.
La settimana scorsa, parlando della Cassazione e del Cavaliere qualcuno ha evocato il 25 luglio del ’43. Quella caduta di Mussolini provocata dagli stessi gerarchi ormai risoluti a scaricarsi dalle responsabilità della guerra perduta o illusi che il ridimensionamento del duce avrebbe dato loro più spazio e addossato al re la responsabilità dell’invasione del Paese. Non capivano che la mossa era volta a liquidare il fascismo perché la corona, i comandi militari, i potentati economici, potessero rifarsi una verginità di fronte ai vincitori. Cosa che sarebbe riuscita alla perfezione se la loro poca lucidità non li avesse portati a compiere errori grossolani e a permettere l’ingresso in forze dei tedeschi. La situazione è totalmente differente, ma si sente aleggiare lo stesso spirito: qualcuno fa finta di aspettare la sentenza per decretare che Berlusconi è un caimano e così imbarazzarsi per stare al governo con lui, qualcun altro non vede l’ora di innalzare agli altari il Cavaliere come vittima dell’ingiustizia. E tutto mentre il Paese è di fatto occupato, retto da governatori o modestissimi yes man del potere. Nel secolo scorso fu la Resistenza a rompere le uova nel paniere dell’ipocrisia in cui era vissuta per due decenni la classe dirigente italiana. E ora che la resistenza la si fa solo con la rassegnazione?
Cominciare a pensare che la sospensione della democrazia reale e della sovranità dovrà avere un prezzo per chi l’ha pensata ed attuata, sarebbe già qualcosa. Almeno una rivoluzione della dignità.