Berlusconi, la magistratura, il governo Letta e la legge elettorale
Con la condanna di Berlusconi a quattro anni di carcere per frode fiscale confermata dalla Corte di Cassazione, si consuma nel caldo d’agosto l’ultimo braccio di ferro tra l’ex premier e la magistratura italiana. Nonostante il potere berlusconiano, fatto di soldi, televisioni, giornali e legittimi impedimenti, ha vinto lo Stato di diritto: la legge è ancora uguale per tutti – salvo assurde concessioni di grazie dell’ultima ora – e lo stesso presidente della Repubblica, nella sua nota, ha chiarito che, per non violare il principio della separazione dei poteri, “di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto”. Ma non ci sono vincitori, solo vinti: a perdere, in questo ventennale scontro tra poteri, è soltanto l’Italia.
È irrilevante in questa sede entrare nei dettagli processuali, ma in nessuna democrazia del mondo – lo so, è noioso, ma è così – sarebbe permesso elevare a punto di riferimento di un governo un esponente politico condannato in via definitiva, e tantomeno sarebbe permesso far dipendere il destino di quel governo dai suoi processi personali; quel politico sarebbe già stato isolato e sarebbe scomparso dalla scena pubblica. Il partito stesso lo avrebbe invitato a ritirarsi a vita privata – ma il Pdl, espressione di una destra anomala, non è un partito democratico, è il partito di Berlusconi, è una sua proprietà nel senso giuridico del termine, e i suoi esponenti non sono altro che emanazioni del Capo. Mentre in Italia Alfano e Calderoli occupano le loro poltrone, l’altro giorno il Primo ministro del Lussemburgo Juncker, già presidente dell’Eurogruppo, si è dimesso a seguito di uno scandalo sui servizi segreti; sullo scandalo Bàrcenas il premier spagnolo Rajoy tentenna e vuole restare, ma le opposizioni di sinistra chiedono a gran voce le sue dimissioni (cosa che qui pare utopia). Nel 2012 anche il Presidente tedesco Wulff, alla richiesta della procura di Hannover di revoca dell’immunità, ha lasciato immediatamente. Poi c’è ancora chi si dimette per una tesi di dottorato copiata, ma da noi la laurea si compra direttamente, magari in Albania.
Solo in Italia ci tocca tollerare tutto questo, far passare un pregiudicato come Berlusconi come uno statista privo di moralità pubblica e senso dello Stato, e sposare la causa della pacificazione fondata – scrive Massimo Recalcati – su una “rimozione della realtà”; alcuni italiani, particolarmente inclini ai populisti, si bevono da anni il film del complotto giudiziario, di cui è già pronto il titolo “La guerra dei vent’anni”, ben veicolato dalle tv e dalla stampa di Berlusconi, che da anni sarebbe in atto nei confronti dell’ex premier Francamente si stenta a credere a questo ridicolo teorema che, piuttosto, è da attribuire alle strategie difensive di Berlusconi che, pur di sottrarsi ai processi, ha evidentemente scatenato la sua fantasia. Dico ridicolo, se non paradossale, perché questa magistratura politicizzata, che si dice sia solo una minoranza, deve proprio essersi insediata dappertutto, dal tribunale di Milano alla Cassazione di Roma, dove è stata emessa l’ultima sentenza. E, soprattutto, quando non lo condanna – o chiede l’estradizione di Cesare Battisti - è democratica, mentre quando lo condanna è sovversiva e comunista.
Quanto al problema dell’interdizione, che è stato rinviato in appello per una sua rideterminazione, non si pone: Berlusconi avrebbe già dovuto essere dichiarato ineleggibile a causa di un palese conflitto di interessi che non gli ha impedito per quattro volte di diventare presidente del Consiglio. Ora una condanna di terzo grado è sufficiente per renderlo incompatibile con la carica pubblica di senatore: lo è dal punto di vista morale – e la moralità pubblica è un atteggiamento essenziale di chi detiene il potere – e dovrebbe esserlo anche da quello legale. Non si tratta di moralismo, e in questo caso forse nemmeno di senso delle istituzioni, ma di semplice dignità e buon senso: le cariche non si vendono più come nella Francia del Seicento, ma si onorano. E non si venga a dire che visto che il popolo lo ha eletto più volte e, quindi, Berlusconi può essere giudicato solo dal popolo. Non bisogna confondere la legittimità con l’immunità: essere eletti dal popolo – la fonte dei tre poteri, che esercita la sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione – significa che si è legittimati a governare, non che si riceve una speciale immunità per cui si è al di sopra delle leggi. Il popolo ha il diritto di scegliere i propri rappresentanti, di giudicarli nei comportamenti e nelle attività pubbliche, e di sanzionarli alle elezioni qualora non soddisfino le aspettative, ma non può sostituirsi al terzo potere dello Stato (purtroppo con la giustizia sommaria da Rivoluzione Francese si sa già come va a finire).
Ignorando tutto questo, negando la realtà, oggi tuttavia si ha ancora il coraggio di chiedersi se il governo possa continuare la sua azione, nonostante il suo principale alleato sia stato condannato in via definitiva per un reato così grave. E lo si chiede in nome di un nuovo dogma, imperante da alcuni anni, almeno dal governo Monti: quello della stabilità. Mentre di spread ormai si sente parlare poco e le agenzie di rating vengono snobbate dai mercati e dai governi, la stabilità diventa il nuovo slogan da perseguire e idolatrare. Il fatto è che (si dice) ci troviamo in una perenne situazione di emergenza in cui è necessario che i maggiori partiti si riuniscano per far fronte alla situazione economica devastante. Quindi, nonostante tutto, la governabilità va garantita. A qualsiasi costo, anche se si contrasta con i più elementari principi democratici: ed ecco che si cerca di rinviare tutto finché si può per evitare una crisi di governo, sul “caso kazako” si tace il più possibile, la condanna di Berlusconi non conta, perché ciò che conta è durare. Tutto è giustificato in nome di una forzata stabilità, che finisce per mescolare tutto e azzerare le differenze (insomma, pane per i denti di Grillo).
Si guarda idealmente al compromesso storico tra il Pci e la Dc ma, soprattutto, si prende ad esempio il modello della “grande coalizione” tedesca che, dal 1966 al 1969 e dal 2005 al 2009, ha visto alleati i due maggiori partiti (CDU/CSU-SPD). Ma quello formato da Letta, dopo la rielezione di Napolitano, può essere definito solo un governo di larghe intese tra Pd, Pdl e Sc, non di grande coalizione, perché un tale governo vedrebbe soltanto la partecipazione dei due principali partiti che nel Parlamento attualmente sono il Pd e il M5S (il secondo per numero di seggi alla Camera). Una grande coalizione o, in questo caso, un governo di larghe intese, proprio perché nato da una situazione di emergenza economica e anche politica in un momento in cui non erano possibili altre alternative, dovrebbe avere un termine. Credo che la vicenda Berlusconi abbia messo definitivamente fine, anche dal punto di vista morale, a questa anomala maggioranza.
Ora, il Parlamento esautorato dovrebbe scrivere una nuova legge elettorale, la cui approvazione deve essere svincolata dal piano delle leggi costituzionali affidate alla Commissione dei 40 e messa a disposizione delle Camere – e, se proprio non si hanno idee, si legga La trappola di Luciano Canfora. Questa è la vera grande riforma, auspicata nella sua nota anche dal presidente Napolitano, che in questo momento appare urgente – non meno dei provvedimenti economici, della abolizione delle Provincie, del taglio del numero dei parlamentari e dell’introduzione del Senato federale – ma che il “governo del fare” continua a rinviare. Abolire, non modificare, il Porcellum, ridarebbe dignità democratica a questo Paese, in preda all’emergenza dal novembre 2011, e ci permetterebbe di ritornare serenamente a votare. Molti auspicano un governo stabile, della durata di una legislatura, che tuttavia non sia frutto di alleanze impensabili e di squallidi compromessi che, alla fine, portano all’immobilità, ma di una sana alternanza politica. Ciò sarà possibile anche grazie a un sistema elettorale costituzionale: e, allora, sì che in quel caso la stabilità sarà un valore.