Bestie, Federigo Tozzi, 1913

Da Silvy56

“Le notti d’estate non dormivo: e, s’ero andato a letto piuttosto presto, mi rialzavo e uscivo. È strano come la notte mi sia impossibile pensare a quel che ho fatto il giorno! È per me un altro mattino che comincia. I miei sogni, allora, sapevano d’aceto od erano voluttuosi. E le strade solitarie dove i lampioni parevano acchiapparsi al muro per non cadere dalla stanchezza, svegliavano tutti i miei brividi, e cercavo per l’indomani gli amici e la donna da amare, che non avevo mai. Quando tirava vento, qualche manifesto staccato, sotto un arco, sbatteva al muro, e anche il mio cuore sbatteva. Quando amavo sempre la medesima, mi piacevano i tetti rossi e i geranei. Di primavera m’ostinavo a diventar cattolico e d’inverno sognavo di diventar ricco. Ah, non dimenticherò che ella si faceva togliere le calze da me perché le baciassi i piedi, si faceva sbucciare le frutta, mi bruciava il viso con la sua sigaretta! E perché, quand’ella mi teneva abbracciato, io guardavo noi due nello specchio e non sapevo se fossimo di qua o di là da esso? E perché dimenticavo perfino il mio nome? Ella mi aveva ingannato sempre, ma ero così abituato a lei che l’amavo egualmente. E per la stessa ragione che l’orsa la notte splendeva, così doveva esserci il mio amore; e mi pareva che la mia bocca fosse nata soltanto per baciare lei. Ah, sì! Mi piacevano i tetti rossi, i platani pieni di foglie, le acacie quando avevano messo i loro fiori, i muri delle strade e le finestre chiuse! Ma più di tutto, lo ripeto un’altra volta, mi piacevano le distese dei tetti rossi ch’erano una festa per la pioggia e per il chiaro di luna che mi faceva stare con la testa ai vetri. Pensavo, in vece a cose che avrebbero dovuto nascere l’indomani e che io stesso dimenticavo. Non so di che mi vergognassi. In campagna mi fermavo sotto un albero che aveva i rami troppo schiacciati, e gli offrivo di sorreggerli con la mia anima. E prima d’entrare in una strada io mi ci affidavo tutto. La stessa città mi pareva forse più di cento città; quella di quando avevo vent’anni non somigliava a quella di venticinque; la molta gente, che conoscevo, mi faceva lo stesso effetto di un pianoforte se si pigiassero insieme tutti i suoi tasti…”

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