Pierre-August Renoir, La lettrice (1880)
Seconda parte dell'articolo scritto da Cristina M. Cavaliere sulla sua esperienza nell'aiutare altri autori a revisionare i loro romanzi.Qui la prima parte, dove si parla delle prime due fasi di questo lavoro.
FASE TRE
Questa è una fase in un po’ più analitica rispetto alla fase precedente. Non è ancora minuziosa come la fase successiva, infatti la definirei una fase intermedia. Nella Fase due ho già preso degli appunti, come dicevo, per andare a fondo sui seguenti aspetti, non necessariamente in quest’ordine:
1. L’incipit e il finale, cioè le due parti che sono croce e delizia di ogni scrittore. Ci sono autori anche blasonati che iniziano con incipit brillanti, poi cominciano ad arrancare e crollano miseramente nei finali.
Vi sembra credibile, in Angeli e Demoni di Dan Brown, il professor Langdon che si getta dall’elicottero con una specie di tela cerata e, invece di andare a schiantarsi da qualche parte, precipita esattamente nel Tevere senza nemmeno farsi troppo male? A me no. Un altro finale assurdo l’ho trovato nel già citato Il gioco dell’angelo di Zafón: dopo molte tribolazioni che chiamano in causa esseri anche infernali, tutto finisce a tarallucci e vino. Queste cose stimolano il mio lato violento, perché ho la sensazione di aver perso denaro, se ho acquistato l’opera, e soprattutto tempo prezioso se il libro mi è stato regalato o l’ho preso in biblioteca. Scrivere un finale banale significa non mantenere le promesse, lasciare la sposa o lo sposo all’altare. Vergogna! Non si fa!
Ci sono anche autori che partono con lentezza e poi vanno spediti e concludono con dei buoni, se non ottimi, finali. Preferisco storie scritte così, dato che non appartengo alla categoria dei lettori impazienti “voglio-tutto-e-subito”; però capisco che con l’incipit si getta l’esca che acchiapperà il lettore. Ed è un dato di fatto che sull’incipit bisogna lavorare molto.
2. La coerenza interna. Nel guest-post sulla scolastica, vi facevo l’esempio del vocabolo tolto da una lezione e presentato in una lezione successiva, e come editor mi devo ricordare di toglierlo ovunque finché non è presentato “ufficialmente” in quanto lo studente non lo conosce e, appunto, è lì per impararlo in modo corretto. La stessa cosa accade con un personaggio che muore in un capitolo, e non può rispuntare due capitoli dopo, risorgendo senza un motivo. Gli esempi che si possono fare sulle incoerenze sono innumerevoli: personaggi che sembrano degli highlander perché, anche dopo aver raggiunto un’età veneranda, continuano a comportarsi con l’energia di ragazzini – e quindi attenzione all’anagrafe. Personaggi che in un capitolo hanno gli occhi azzurri, e qualche capitolo più avanti gli occhi verdi senza nemmeno dotarsi di lenti a contatto… È capitato a me, sui capelli però: nel mio romanzo Il Pittore degli Angeli Lorenzo all’inizio ha i capelli lisci. Ad un certo punto la signora inglese che me lo stava traducendo mi ha chiesto – inviperita – come caspita aveva i capelli questo qui, perché improvvisamente erano diventati ondulati. Al che ho risposto abilmente: “Sono lisci, ma ondulati in punta,” cavandomela per il rotto della cuffia.
3. Ripetizioni o necessità di arricchimento. Ogni romanzo è un organismo vivente e, come ogni organismo che si rispetti, deve essere in buona salute. Un romanzo non può avere quattro polmoni e nemmeno uno stomaco, vale a dire che il beta-reader si dovrebbe accorgere se la stessa scena è ripetuta per varie volte di seguito, come si dovrebbe accorgere se, in un certo punto, manca qualcosa d’importante, o sarebbe meglio arricchire un passaggio o scrivere una nuova scena. Rimando, sopra, al concetto di “un po’ lungo – un po’ corto.”
4. L’equilibrio tra descrizioni e dialoghi. Ci sono autori che amano con passione le descrizioni e te le infliggono lungo pagine e pagine, e con elementi minuziosamente descritti. Di ogni cosa l’autore è ansioso di comunicare peso x altezza : 2, colore, posizione nello spazio e, passando dal grande al piccolo, il numero degli atomi di cui è composto l’oggetto, e così via all’infinito. Penso che questa sia una caratteristica abbastanza comune di chi è alle prime armi. Io stessa mi ricordo che, molti anni fa – perché a volte mi sento l’età della vecchissima Morla ne La storia infinita (non so se ricordate, era quella grossa tartaruga che sbucava dalla caverna e, starnutendo, quasi spazzava via il ragazzino Atreju) – piuttosto che inserire un dialogo mi sarei fatta cavare un litro di sangue. Trovavo che il dialogo abbassasse il livello narrativo, chissà perché. Oltretutto ho quasi sempre scritto romanzi storici, dove una certa dose di descrizione è inevitabile, e quindi il tutto acquisiva la densità del cemento armato.
Viceversa, ci sono autori che inseriscono dialoghi come se piovesse, e qui apro un sottopunto doveroso, e un grido di dolore:
- è della massima importanza capire chi sta parlando in un dialogo. Non costringete il vostro povero lettore-cavia (qui l’espressione ci sta bene) ad andare all’inizio del paragrafo, o del capitolo, per ripassare battuta per battuta e comprendere se è A, B, C o D che parla, o se c’è un errore nella sistemazione dei dialoghi. Il lettore è come un cieco che deve essere aiutato a vedere la scena, e se nemmeno l’autore ci riesce, non si può pretendere che il beta-reader non faccia volare il manoscritto fuori dalla finestra. Di solito perdono qualsiasi cosa, ma questo è un difetto che mi fa salire il sangue agli occhi. Cito l’opera L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, un testo-base per il femminismo, che non sono riuscita a finire a venti pagine dalla conclusione perché non capivo un accidente chi stesse parlando nei dialoghi, oltretutto misti tra italiano e siciliano.
Ritornando a bomba, ritengo ora che siano un’arma formidabile per far affezionare i lettori alla storia, e far decollare alcuni punti un po’ mosci. Li scrivo molto volentieri, inserendoli in punti strategici. Attraverso uno scambio orale, si può rivelare più dei personaggi che non, appunto, fornendo lunghe descrizioni; poi sta al lettore giudicare. Com’è ovvio, i dialoghi non devono essere banali, ma lievemente, forzatamente ordinati e, soprattutto, significativi. Siccome il kaos nella vita regna sovrano, non possiamo ripetere alla lettera un dialogo così com’è; dovremo essere il dio ordinatore non solo della storia, ma anche del parlato dei personaggi.
5. La cura dei personaggi. Altra cosa che l’autore non dovrebbe fare è abbandonare al suo destino un personaggio, per quanto odioso sia. Ognuno di loro merita un adieu più o meno cruento, a seconda delle intenzioni del suo creatore. Molte volte mi è capitato di chiedermi alla fine di un romanzo: “Perbacco! Ma dov’è finito Gigetto? Era là alla fermata dell’autobus che aspettava Pasqualina… l’autobus è arrivato? Che ne è di lui?” e di mettermi in ansia come una mamma che, nella fretta di comprare le verdure dall’ortolano, d’improvviso si è ricordata di aver lasciato il bimbo per la strada. Vado indietro, e ancora indietro, e scopro che Gigetto è rimasto alla fermata dell’autobus, nessuno lo degna di uno sguardo ed è ormai coperto di licheni: l’autore si è dimenticato di lui, e pure Pasqualina. Mi spunta una lacrima, che scivola lentamente sulla guancia: se non si pone rimedio alla sua infelice sorte, rimarrà per sempre da solo alla fermata dell’autobus, prigioniero nella sua bolla spazio-temporale cartacea.
Altra cosa che mi turba è permettere a un “cattivo” di fare il bello e il cattivo tempo per la maggior parte del romanzo, e poi liquidarlo in tre paginette. Un esempio è La mano di Fatima di Falcones: siamo nel 1568 e, stanchi di ingiustizie e umiliazioni, i moriscos, i musulmani spagnoli convertiti a forza, si rivoltano contro i cristiani che li hanno costretti alla conversione, in un focolaio che dalle Alpujarras si estenderà in maniera incontrollata e con episodi di violenza atroce. Ebbene, nel romanzo accade proprio questo: il malvagio di turno si accanisce sui due giovanissimi innamorati (e sul lettore) che se lo ritrovano sempre in mezzo ai piedi; poi, verso la fine del romanzo, Falcones lo liquida in quattro e quattr’otto. Probabilmente era anche sfinito, poverino – si tratta di un romanzo storico corposissimo di circa seicento pagine e denso di documentazione – però la cosa a me ha lasciato l’amaro in bocca. Considerazione del tutto opinabile, beninteso.
(continua...) Cristina M. Cavaliere