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Gli orfani di Breaking Bad all'annuncio ormai due anni fa della realizzazione di uno spin-off della loro serie preferita non sapevano se gioire o preoccuparsi.
Io stessa non sapevo se gioire o preoccuparmi: concentrarsi sulla figura dell'avvocato dalla facile parlantina Saul Goodman sarebbe stato un bene o un male? Sarebbe stato solo un contentino, un voler cavalcare l'onda consapevoli di un facile successo?
Forse inizialmente è anche stato così, ma poi si è capito, a partire dai primi episodi, che quello che Vince Gillian ha voluto fare è stato creare un nuovo scenario, mostrarci un passato tutto da inventare, portandoci sì ancora ad Albuquerque, ma costruendo con la stessa cura riservata a Walter White una storia, uno script in cui poter evolvere nuovamente, reinventando, collegando.
Non stupisce quindi che Better Call Saul parta lentamente, addirittura da un futuro imprecisato in bianco e nero che assesta il primo colpo.
Proprio come Breaking Bad ha bisogno dei suoi tempi, dei suoi spazi per emergere, calibrando il tiro, finendo poi per avvolgerti, per portarti in quest'altro scenario che ha il suo perchè, e che sa soprattutto esistere senza quel padrino tanto importante quanto scomodo.
Conosciamo quindi Saul quando ancora è Jimmy, quando deve faticare per perdere il suo vizietto della truffa facile, cercando di sfondare come avvocato, avendo però alle spalle un fratello tanto bravo quanto problematico, e uno studio colosso del quale quel fratello è parte -anche se momentaneamente a riposo- a fargli fronte. Chiuso nel suo stanzino nel retro di un centro estetico cinese, Saul/Jimmy cerca ogni modo per uscire dall'anonimato, illegale compreso.
Ci vorranno un paio di casi, un paio di svolte e di colpi di fortuna per smuovere le cose. Riuscirci non è cosa semplice.
Se i comprimari, come Kim o come Chuck, poco a poco si ritagliano il loro spazio, a fare da ovvia calamita di interesse è Mike, il cui stesso passato misterioso ci viene lentamente fatto conoscere, le cui gesta esaltano, forse più delle prodezze linguistiche di Saul.
La serie si muove quindi come un serpente, aggirando ostacoli, immettendo storie laterali che attirano l'attenzione, circondando lo spettatore con le sue spire, facendolo così risvegliare contagiato da una nuova serie. Merito di uno script che non lascia niente al caso, né i flashback né i flashfoward, né i dialoghi né quei quasi monologhi fulminanti che mostrano tutta la bravura di un vero e proprio mattatore come Bob Odenkirk.
Ma merito anche di un comparto tecnico da applausi, con quelle inquadrature dal basso, quell'attenzione per i dettagli, per la fotografia, per i colori, che con Breaking Bad ha fatto scuola e qui viene ripresa perfettamente.
Sempre pronta ad esplodere, Better Call Saul sembra tenere sempre in canna un altro colpo, più vincente, più d'impatto, mettendo appunto una strategia di successo che già a scatola chiusa ha avuto una conferma per una nuova stagione.
Così facendo, quello spettatore che si è ritrovato nel corso dei 10 episodi lentamente avvolto nelle spire di un serpente nell'abito migliore, sa già che avrà ancora del tempo, ancora dell'aria da respirare a pieni polmoni.
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