Better Times (VI puntata di Bilbao solo andata)

Da Thefreak @TheFreak_ITA

“Andavano così tra l’avena selvatica, e le loro parole le udì solo la notte.”

 La pagina segnata con la piega dell’angolo a linguetta, precisamente la numero 57, aveva colto Giorgio di un’infantile e delicata sorpresa, nell’atto in cui era teso a sfogliare quella raccolta di Verlaine che Livia gli aveva donato un mese addietro senza sancire alcuna ricorrenza particolare.

Un libro dall’involucro che odorava di antico, scovato in un mercatino dell’usato nei pressi di Rue De Monparnasse, in una delle consuete soste di Livia dentro Parigi, a seguitare la sua fame girovaga, di bazar e cianfrusaglie.

Giorgio ricordava le parole di lei al momento dello scambio. Gli sussurrò che questo libro sarebbe valso da presenza quotidiana per togliere malinconia ai giorni che li avrebbero visti lontani, a risiedere nelle loro dimore metropolitane, per scelta e necessità, fino al momento del successivo incontro.

Era in procinto di attraversare la Senna, di imbattersi e perdersi nel quartiere di Saint Germain e raggiungere il luogo prescelto, un bar notorio ma diversamente pomposo o sfacciato, il bisogno di un tavolino fuori e un caffè, un po’ di pace ragguagliata prima di accarezzare i suoi pensieri sbadati.

Giorgio imboccò Rue de Seine fino al civico 43. Cafè de La Palette.

Teneva le poesie di Paul Verlaine strette sotto l’avambraccio, come uno scudo forgiato da carta ed emozioni, da renderlo invincibile avverso ad ogni ripensamento, ogni cedimento, ogni nostalgico moto di sguardo nel chiedersi dove fosse Livia, e cosa stesse vivendo.

Con la scaltrezza di uno sguardo vispo e mai distratto, Giorgio adocchiò un tavolino all’estremità destra della strada, lasciato solo, poiché accompagnato da un’unica sedia.

Ne prese possesso, attese di ordinare e si distese con fare felino, allungando le gambe e distendendo le braccia fino a raggiungere la metà di quel sostegno laccato.

Posò il libro sulla superficie e lo tenne lì, ma per il puro e semplice vezzo di ammirarlo con l’ausilio della giusta distanza.

Giorgio sporse il suo corpo verso quel rettangolo cartaceo, preso dalla curiosità di aprirlo nel punto esatto in cui Livia aveva lasciato il suo candido segno.

“Ricordi la nostra estasi d’allora? E perché vuoi che la ricordi?

Batte ancora il tuo cuore solo all’udire il mio nome? Ancora vedi in sogno la mia anima?

  No”

 Nell’atto in cui l’ultimo sussulto di una lettura silenziosa e intima terminò di schiudersi, Giorgio ebbe un forte contraccolpo.

Un brivido netto e severo corse lungo vertebre in recondita tensione, quasi come una manciata di dita che scorrono repentine e forti sui tasti di un pianoforte, al termine di un’esecuzione. Inaspettato. Come inaspettata fu la visione di quelle parole, che odoravano di lasciti, distacco, resa.

Se avesse potuto descrivere i rapporti con l’ausilio di un’immagine meccanica ed estranea a mielose metafore ornamentali di cui si lustrano poeti e pittori che vanno a definire romantiche espressioni e folgoranti ritratti, Giorgio avrebbe osato paragonare il suo connubio con Livia a un’immagine di pali elettrici. Paralleli, eretti, frontali, ma legati da un intrico di fili di rame e ferro su cui va a scorrere l’energia pura destinata a rendere luce.

La folgorante e vivida energia dei gettiti di luce è resa manifesta dal perenne scorrere che essa compie nei sottili tunnel di quei fili, e non trova barriere o nodi che possano frenarne il corso, è in perenne moto, e si alimenta finchè il contatto tra i due tronchi di acciaio non garantisce quel fluttuare fisico, quell’alchimia da laboratorio così libera e potente, quella cascata di adrenalina chimica che acceca e accende le cose intorno.

E tale fascio può essere bruscamente interrotto solo se uno dei due pali cessa il suo dovere, termina di adempiere al suo ruolo. Si ferma, portando quel fruscio di molecole fluttuanti a tornare indietro, o a esaurirsi, o a girare su di sé. Senza soluzione di continuità. Off.

Giorgio sentì il cristallizzarsi di quel rumore di energia risucchiata, quasi a strapiombo in un buco nero immaginario, ma dal suono straziante, per poi ritornare poco dopo ad un silenzio altrettanto assordante, molto vicino a quelli che susseguono ogni irreversibile addio.

Con un gesto che non portava con sé spiegazioni dal piglio razionale, ebbe lo scatto repentino di scovare nella tasca sinistra del jeans il cellulare con l’intento di intercettare la voce di Livia, come se udire quel sorso di femminilità laringicamente espresso potesse distoglierlo dal tarlo che gli aveva oppresso ogni respiro cardiaco. Un vento vocale rassicurante, come a dire: “va tutto bene, niente è cambiato, ti seguo da qui, niente si è spento, il destino non ha premuto incautamente l’interruttore su di noi, c’è luce, ti vedo.”

Come un bypass difettoso quel dubbio insano e improvviso aggravò il battito di Giorgio, alimentò quel dubbio di mancato amore, a seguito di una risposta non data dall’altro capo del filo, del telefono, di Amsterdam.

Alcun segnale di risposta, un incespicare in meccanici bip che comunicavano la linea libera ma non afferrata e aggravavano l’escalation di tensione gonfiando la consistenza di quel dubbio sopraggiunto in un modo inspiegabile, come se potesse bastare un giro di parole evidenziate su un libro e una telefonata non andata a buon fine… ma c’era dell’altro, e quell’interruttore alcalinico dispiegava uno stato di cose che stava fluttuando nell’aria e nelle vene di Giorgio. Si alzò con uno scatto brusco, non fece in tempo ad ordinare, si allontanò furtivamente da La Palette con uno sguardo di gelo e torpore invernale, al netto del sole che cascava come pioggia inaspettata su Parigi.

Prese a camminare con passo svelto e incalzante per Rue de Seine, girò repentinamente per Rue de Saint Germain,  ancora metri, ancora quesiti.

“Perché non mi sente? Cosa accade? Cosa ci accade?”

Su Rue de Saint Germain era un carnevale di voci e rumori di tazzine da caffè e cucchiaini in vorticosa danza.

“Dove sei Livia? Perché accade questo? Perché non ti sento?”

Era una progressione di passi e rumori di strada, cemento, poi basamento,  vetrine sgargianti, cappotti in progressione quasi regale, giovani voci e un quartiere che pompava la sua longeva vita eterna.

Giorgio interruppe il suo procedere senza una direzione precisa.

“Il libro. L’ho lasciato sul tavolo”

Non aveva tenuto conto di quanto fosse giunto lontano dal bar, di quanti metri i suoi pensieri avessero coltivato e quanta distanza fisica fosse intercorsa, senza che lui potesse razionalizzare e guidare la sua direzione.

Nel suo travagliato ingorgo sinaptico, prese coraggio e compose il movimento di chi ritorna indietro a riprendersi ciò che ha perduto, anche se solo per un breve istante, che sia un accendino, un libro, una certezza, Livia.

Ma quasi come un frame scandito a rallenti, mentre il corpo di Giorgio compiva le sue gesta di riprendere la strada a ritroso, il suo sguardo fu improvvisamente catturato da una fetta di muro bianco che campeggiava sul lato sinistro.

Arrestò quel passaggio anatomico. Rimase immobile. Solo gli occhi in attività, tutto il resto come in un solenne rigor mortis.

Un enorme lenzuolo di calce e mattoni si ergeva di fronte a lui, come quelle distese di panni sui terrazzi che assumono propria consistenza e visuale, e impressa su quella tela possente, campeggiava una scritta di dimensioni quasi umane a sporcare di un rosso vermiglio una monotonia cromatica, come se si fosse commesso un delitto, un vilipendio urbano.

 I want you to know the truth

’cause I’ve been around before

Though I was looking anymore

Giorgio fu vittima di una strage visiva.

Uno strappo del cuore.

Come sangue schizzato via e gettato sul muro.

Casco Vejo si apriva con il suo labirinto composito di strade maestre e vicoli minori, in un intreccio che ricordavano le maglie di una sfoglia dolciaria, con pieghe laterali vistose e piccoli filamenti orizzontali a chiudere la trama.

Vanni aveva terminato il suo turno al museo, si era trattenuto più del dovuto quella sera, per via di un parere giunto all’ultimo minuto, di cui non voleva prolungarne l’analisi nei giorni a venire, né delegarne il lavoro ai colleghi.

Uscì dal Guggheneim diretto verso Calle Dorre Kalea senza esitazione né ipotesi di altre scelte direzionali.

Da quando viveva a Bilbao, si era appena concluso il suo terzo mese, volutamente scorreva nella città per scoprirne le sue arterie e perdersi dentro, in un modo tutto personale di atteggiarsi come un turista in costante proroga.

Si dichiara l’appartenenza a una città solo quando si ha il coraggio di affrontarla senza guide salvifiche né bussole. Vanni pensava a quanto fossero sciocchi coloro che si vantano di aver toccato i posti e gli agglomerati metropolitani solo per il semplice citare  o elencare i luoghi notori che si sono visti, magari anche solo di sfuggita, o descrivere i percorsi obbligatori e i monumenti ricorrenti, da Lonely Planet.

Sapeva intimamente che appartenere a un luogo significava avere conoscenza di tutto ciò che quel luogo non manifesta nell’immediato. La quotidianità di cui vive la gente del posto, le consuetudini banali e apparentemente scontate di chi nasce e cresce e continua a sostare in quel posto. Sapeva che calarsi dentro Bilbao, o Milano, o Londra era un po’ come dichiarare di conoscere e apprezzare uno scrittore.

Leggere un’opera o due, non rende la consapevolezza dell’autore. Leggere altresì ogni libro, anche i minori o le opere prime, badare alle singole parole, ricordarne il suono, risalire al perché di quell’uso e al momento in cui un libro è stato scritto, incuriosirsi della biografia, andare a ritroso nell’esistenza di quello scrittore. Esserne appagati anche dopo averne scoperto gli sbagli o gli errori. Criticarlo, seguirlo, amarlo. Questo è conoscere Forster o Roth o Fitsgerald. Ed è con tale dizionario comportamentale che si può affermare di conoscere una città.

Vanni sentiva il peso di quei pensieri incartati e contorti sul bordo delle pareti celebrali, e capì che doveva mangiare qualcosa.

Si fermò allo “Jamonito” di recente scoperta che era divenuto suo faro amico dopo giornate di lavoro pesanti.

Era un posto che i denigratori definirebbero “alla buona”, rustico e senza fantasia, ma per Vanni era un posto ideale, alla luce delle sue semplici esigenze di Cerveza fredda e prosciutto locale.

El vejo”. Gestione familiare, frequentazioni altrettanto intime e quotidiane.

Juan, il proprietario, era un uomo sulla qurantina, inizialmente distaccato e burbero come tutti i baschi, ma con la tendenza ad allentare quel carattere ruvido da uomo di porto e lasciarsi coinvolgere dai moti confidenziali dei clienti più assidui.

Con Vanni aveva accantonato quel piglio increspato già dai primi momenti in cui il ragazzo si era fermato a consumare birra e salumi, in una pratica che era diventata quasi giornaliera, e tra loro si era creato quel rapporto di spalla per spalla, di battute scambiate con tempi quasi comici, quasi in perfetto stile Bar Sport made in Italy.

Quella sera però Vanni si sedette fuori. Necessitava di aria e di calma. Non aveva ispirazioni narrative. Una birra e un po’ di pace. Nient’altro.

Juan vide il ragazzo passare e prendere posto dalle pieghe libere che lasciavano le tendine di plastica dai filamenti lunghi, che davano al “El Vejo” un aspetto da salumeria di provincie del Sud, quei locali abbandonati da Dio in cui si spendono e dispiegano le storie popolari.

L’uomo uscì per prendere l’ordine. Guardò Vanni inclinando lievemente la testa, fissandolo con degli occhi scuri e corrucciati come un lupo stepposo e vigile.

“Que pasa hombre?”

“ Pasa nada, Juan…”

“Voi italiani quando siete scuri in volto e tristi è quasi sempre per due motivi: il calcio e le donne. Ahah”

Vanni sorrise. Accennò un’espressione di cortese indifferenza per non far trapelare il disappunto per quel luogo comune così facilmente espresso e gettato li.

Ma Vanni sapeva che Juan non era uomo da volgarità spicciole e decise di non replicare comunque per non sollevare polemiche sbagliate, che avrebbero pregiudicato uno dei pochi rapporti normali che era riuscito a costruire a Bilbao, per quanto triste la cosa potesse apparire.

Juan percepì il desiderio di Vanni di non discorrere oltre, ma essendo uomo d’esperienza e avendo assistito nel corso della sua vita a scene di quel medesimo carteggio, decise di ignorare quel tacito diniego di evitare la conversazione.

Entrò nel locale per poi uscire nuovamente, ma accompagnato da due pinte di birra ghiacciata.

Si sedette accanto al ragazzo, ed esordì dicendo:

“El problema no es el futbol eh? El problema es el corazòn..”

Vanni continuava nel suo silenzio ovattato mentre portava a sé il bicchiere e mandava giù brevi ma decisi sorsi di birra.

“Te voy a contar una historia… Sabes quìen es Odola?”

Vanni scosse la testa.

“Bien…”

“Due anni fa conobbi un ragazzo, più o meno della tua età, che si fermò a bere e a mangiare qui. Se ricordo bene era inglese, viveva a Londra mi pare.

Quando mi avvicinai a lui per portargli la birra mi chiese se potessi fermarmi a parlare, perché aveva bisogno di un’informazione.

Mi disse che era giunto a Bilbao perché cercava un Muro. Mi raccontò che nel quartiere di Shoredich, dove lui abitava, un giorno si imbattè in un muro abbandonato, un retro di un palazzo, in cui campeggiava una scritta enorme di vernice rossa, una frase netta ed evidente, e sotto la frase un nome “Odola”.

Lui rimase colpito da quella scritta, quelle parole, perché stava vivendo un periodo particolare, una storia sbagliata, complicazioni a seguire, e in quelle parole trovò la pace e il caos, e allora iniziò a voler capire più a fondo cosa fosse, chi fosse Odola, se esisteva.. le solite cose degli sventurati occasionali che si arrampicano ad ogni stranezza pur di uscire fuori dallo strazio del loro vivere ordinario.

Insomma, mi chiese se sapessi dove fosse un altro Muro bianco, perché aveva fatto delle ricerche, aveva ricostruito una specie di percorso, come un puzzle, di cui Odola aveva lasciato le tracce, voleva ritrovarle tutte, e quindi era partito per Bilbao, e adesso si trovava qui, alla ricerca di questo Muro.

Io gli dissi che non conoscevo Odola, mai vista, mai sentita, mai saputo nulla riguardo al Muro, alla scritta. Lui continuò a parlarmi del senso di quelle frasi, che è come se lei volesse creare una storia e usasse il muro come carta, e aveva sentito dire che chi segue quelle scritte ritrova la soluzione dei propri patimenti, è come se trovasse la via d’uscita, l’appagamento.

Continuò dicendomi che molte persone si sono conosciute nei viaggi compiuti alla ricerca dei muri, di Odola, che perfetti estranei si sono innamorati davanti a quella vernice rossa scagliata violentemente su quel silenzio bianco.

Non mi raccontò quale fosse il suo moto portante, quale problema stesse attraversando, quale dramma vivesse.

Io lo guardai come se fosse un pazzo, ma di quei pazzi che inciampano nella disperazione e nell’oblio pur di aggrapparsi anche all’ultima delle stranezze, pur di continuare ad alimentare speranza.

Non potei aiutarlo, quel ragazzo, ma mi incuriosì la storia di Odola, tanto da chiedere in giro, naturalmente con discrezione e senza essere scambiato per un vaneggiatore, se a Bilbao qualcuno avesse sentito parlare di un Muro, di una scritta, di una matta che va a imbrattare palazzi.”

Juan si fermò. Tenne stretto quel finale di racconto per poter scorgere nel suo ascoltatore un qualche accenno tangibile di curiosa attenzione.

Trafisse gli occhi di Vanni, che intanto aveva mutato la sua espressione rafferma e triste in uno sguardo vispo e inconsciamente sornione, quasi di una sfumatura puerile che ricordava certi bambini in fremito scalpore per il finale di una favola.

Ma Juan fece per alzarsi, fece un giro di quaranta gradi intorno al tavolo, afferrò la sua birra e si mosse con precisi gesti di chi sta per allontanarsi.

Con le spalle quasi interamente voltate su Vanni, l’uomo si fermò per l’ultima volta e disse:

“Hombre ti consiglio di farti un giro da queste parti.

La Calle è lunga, c’è la Cattedrale che è molto bella. Fatti un giro, ti dico. E tieni gli occhi…como dice Italiano? Brillantes?

“Aperti..tenere gli occhi aperti..abiertos… Brillantes significa accesi.. Bright.. Entender?”

“Io ho inteso Hombre… ma credo che tu debba ancora farlo…e che i tuoi occhi dovranno essere Brillanti, e non aperti, perché non c’è nulla da temere, quando la verità va a toccare la vista.”

“La Birra è pagata. Te saludo”

Juan rientrò nel locale.

Vanni restò in silenzio. Come se la mente fosse stata violentata dalle parole di quell’uomo e dal freddo della Cervezà, non riuscì ad elaborare quel dialogo, ma applicò il solo e immediato istinto ai passi che seguirono.

Si alzò e cominciò a camminare.

Aggiungeva passi a passi, aumentava velocità e cronometrava attenzione, gli occhi ad apripista di tutto, a vivisezionare palazzi, a scremare portoni, alla ricerca di una candida visione di pareti lisce e lattiginose.

Giunse fino a Plaza de Santiago e si trovò dinanzi la Cattedrale. Arrestò la marcia. Vide intorno uno strano arpeggio di voci e quiete.

Attraversò la piazza senza badare ai corpi con cui andava a scontrarsi e con cui sollevava un pulviscolo di aria invisibile e morbida.

Fece un giro antiorario per portarsi dietro l’edificio clericale così come aveva potuto carpire da quello strano monito orale pronunciato poco prima da Juan.

Proseguì nella direzione parallela della fine del muro della chiesa, e aumentò il passo.

Venticinque metri più a fondo, in una sequenza di pareti monotone e pennellate di terra e marroni autunnali vide emergere quel fascio di bianco, come un colpo d’iride nettissimo che trafigge una cromatura di grigiore, come uno schizzo di colore a tempera che va a cadere e a imbrattare un quadro finito.

Dirompente.

Vanni si bloccò.

Arretrò di due passi e decise di voler sfidare quel testamento cittadino, quella pagina scomoda, ponendosi frontalmente, come in un duello di pistole.

Lanciò un respiro profondo, che si udì nell’insonorizzazione con cui la sera stava prendendo piede, e chiuse per pochi secondi gli occhi. La paura, l’insensatezza di quel rito, l’assurdità del tutto.

Ed ecco:

 Running around ’cause you beat yourself up

And you made a crack and the one that you love is gone

How much longer can you play with fire before you turn into a liar?

Odola.

Teneva la carta tra il pollice destro e il resto delle dita chiuse a guscio, tremanti, sudate.

Livia continuava a leggere quelle parole impresse sul Tarocco, come se fosse una filastrocca per bambini di cui non riesci a liberarti del cantilenante ritmo.

Era in uno stato di trance, come ipnotizzata, o sotto effetto di un oppiaceo incantesimo, non rinunciava a tenere lo sguardo a strapiombo sui caratteri gotici che diluivano il sonetto di Shakespeare, e non intercettava più la sagoma di Cleilè che continuava a starle accanto, in pacata attesa.

“Non ha senso tutto questo. Non è razionale, non è normale. Chi sei? Cosa ti ha portato qui? Perchè le carte, le parole, perché?”

Cleìle non si scompose di fronte a quell susseguirsi frenetico di domande e sfogo uniti, comprendeva quell’irruenza verbale, quella confusione spinta e virulenta. Ma non rispose.

Non poteva. Non era previsto nel suo ruolo.

Si alzò. Fece cadere quelle onde di stoffa che componevano il suo abito, come scrosci d’acqua purissima e fresca, spostò il cappello che aveva perso equilibrio e lo posizionò nuovamente nella sua natia gravità.

Eretta si sporse verso Livia, che pareva un bocciolo di tulipano nelle sue fasi terminali e in procinto di schiudersi e le baciò la fronte.

Le trasmise un caldo contatto di labbra su pelle tesa come capelli d’arpa.

Le infuse calore, fece sgorgare Armonia.

La guardò, come si guardano certi figli fragile e colpevoli che spasimano perdono, la guardò con un piglio materno e accondiscendente.

La guardò per l’ultima volta.

E girò i tacchi senza darle neppure il tempo di farsi trattenere, di esaudire le sue pregresse richieste.

Livia compose un debole movimento come a volersi alzare e correrle incontro ma percepì le gambe stanche e la fatica di un cuore in frantumi.

Si dovette alzare, perchè quella panchina si stava tramutando in un talamo pesante e soffocante, aveva nuovamente bisogno di camminare e catturare tutto l’ossigeno che correva nell’aria, di respirare.

Attraverso il ponte, imboccò Keizersgracht, fece per risalire la strada tenendo il canale sulla destra e il palazzo quasi a vetrina sull’acqua a sinistra.

Fece per girare su Berenstraat e proseguire in quell vagare schizzofrenico e incessante, pressata da un bagaglio di emozioni e sensazioni riluttanti nella loro Potenza, divenute amare e acri dopo essere state sublimate da scarti mielosi di parole annunciate e scalfite.

Proseguì per pochi metri ma d’un tratto dovette fermarsi. Davanti a lei una strada chiusa, vicolo cieco senza alternative. Sprovvista di ogni ricordo riguardo quella via chiusa, la sua attenzione fu rubata poco dopo dalla visione di una sagoma di fronte a un muro.

Si avvicinò quel giusto da non sembrare invadente e inopportune, e vide in modo nitido che la sagoma apparteneva a una donna, una ragazza, con un vestito dalla texture variopinta, dai colori sgargianti, e i capelli rossi, segnati da un taglio irregolare che vedevano una parte della testa colmata da ricci ruggenti e un’altra parte seminata da pochi ciuffi rasati.

La ragazza era intenta a immergere un grosso pennello in un barattolo che le sostava accanto. Quando fece riemergere l’oggetto, Livia vide colare a mezz’aria delle vistose gocce di vernice rossa.

Si avvicinò al muro che era bianco come un confetto nuziale e cominciò a disegnare, meglio a scrivere, a delineare con forti pennellate le lettere su quello spartito grumoso.

Livia si porse sempre più vicino al perimetro in cui la ragazza compiva quell’atto e i suoi passi si fecerò sempre più incalzanti, rumorosi, presenti.

La ragazza udì che alle sue spalle c’era qualcuno che la stave osservando, ma non si scompose nè temette una reazione di scherno o rimprovero, continuò a forgiare la sua opera, con la noncuranza di chi conosce perfettamente gli eventi che andranno a scandirsi da lì a breve.

La stava aspettando.

Livia intanto restò così, a pochi metri dalla ragazza dai capelli rossi e dal vestito caleidoscopico, e si chiedeva come facesse a non percepire il freddo, a non aver bisogno di altro indumento, e si interrogava sul senso di quella scritta, che non era ancora totalmente palesata e non le si mostrava nitida.

La ragazza si voltò con uno scatto quasi pirotecnico. Si ritrovò Livia di fronte, imbarazzata per quell’incursione fraudolenta, quella presenza ingiustificata, ma ancora una volta incapace di proferire le giuste scuse.

“Attendi pochi attimi”

Si girò verso il muro, colse il pennello che aveva lasciato cadere per terra, si pose quasi adiacente al muro, in un contatto vibrante e perfetto, e ricominciò a muovere vorticosamente il braccio mentre la vernice prendeva maggiore vigore  al suo schiantarsi con la superficie.

Di colpo si fermò.

Fece alcuni passi indietro, nella direzione di Livia.

Si voltò verso di lei, con un fare che aveva come fine ultimo quello di catturare tutta l’attenzione di quella ragazza attonita e con le pupille che richiedevano un qualche cenno soluto.

Le porse un sorriso aperto e limpido, vivace e sveglio. Si scostò repentina sulla destra e con la stessa velocità si mostrò in un inchino muovendo il braccio in direzione del muro.

Livia sottrasse il suo sguardo sulla ragazza, come ad interrompere quello stato di trance ed ebrezza che l’aveva risucchiata sulla panchina e che si era trascinata fino ad allora, come di colpo desta da un sonno impastato e durato anni, avvertì un lament di razionalità che mosse I suoi occhi verso il muro.

E lì vide:

Been a fool for weeks

‘Cause my heart stands for nothing and your soul’s too weak

Got a will that’s been around for days

Goes far if you want it, it needs to behave

But then you, you come around, big mistake

But then we, we come and go, go up in smoke

I don’t want to know, I don’t want to know

 Odola continuò a regredire, passo dopo passo, giunse a poter vedere le spalle di Livia, procedette sempre più lontano dalla sua sagoma, dal suo immane stupore, a una distanza tale da non poter scorgere il nuovo corso che le sue lacrime stavano solcando verso l’asfalto.

“Ehi tu” grido d’un tratto Odola.

Livia si voltò mestamente, fragile e sospesa come un bicchiere di cristallo a pochi secondi dal crash terminale.

“Ricordati che non c’è bisogno di un segnale preciso per scorgere i tempi migliori…sai cosa devi fare…MUOVITI! Eheheh”

E con il medesimo sorriso con cui si era presentata a Livia nella recente brevità, così Odola si congedò, accompagnata da un passo scattante, con piccoli saltelli a sollevare talloni.

Prese la via di fuga, come un folletto suadente e onirico, una creatura inafferrabile e sfuggente, scomparve nell’ombra della strada, mente la sua voce iniziò ad intonare Il ritornello di una canzone, che da prima riconoscibile e orecchiabile man mano divenne senza musica, afona e lontana.

“We don’t need a sign to know better times

We don’t need a sign to know better times”

Ringrazio i Beach House per avermi ispirato nella stesura di questo racconto e per avermi regalato musica e parole.

Better Times – Beach House


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