Fa caldo, molto caldo, e forse si perde di lucidità. Avrei preferito starne fuori dalle questione del significato e delle prospettive dell’acquisizione del giornale statunitense da parte di Bezos ma su specifica richiesta di Francesco Russo mi è stato chiesto un parere e dunque non sono riuscito ad esimermi dal farlo.
Nell’articolo pubblicato ieri su «Tech Economy» a firma, appunto, di Russo, oltre ai miei “due cents” sul tema si trovano le opinioni di Riccardo Luna, Mariano Sabatini, Jacopo Tondelli e Vittorio Zambardino.
Riprendo testualmente quanto ho avuto modo di affermare:
Il WP è stato pagato due volte il suo fatturato. Se il prezzo è alto, nonostante le ironie fatte sul fatto che valga la metà di Messi ed altro ancora, la sfida lo è ancora di più. Tra i primi 10 quotidiani statunitensi il WP è quello più saldamente ancorato alla carta in termini di circulation, di vendite di copie. Sicuramente in prospettiva una buona fetta delle possibilità di recuperare ricavi e margini per i quotidiani è legata all’introduzione dell’e-commerce. Da questo punto di vista l’expertise di Bezos è ovviamente prezioso ed importante. Il WP si scontra non solo con i quotidiani USA ma con altri brand, penso a «The Economist» o al «The Guardian». Nei prossimi tre anni riuscire a frenare la caduta del WP, recuperare marginalità e stabilizzare il giornale sarebbe già un successo; non credo ci si possa attendere altro nel breve-medio periodo.
Sempre in tema vale la pena di riflettere sul fatto che se il «The Washington Post», e le testate “minori” direttamente controllate dal quotidiano, sono state pagate 187 milioni di euro, in Italia vi sono gruppi editoriali, quali Espresso- Repubblica, che cito esclusivamente poiché il dato è presente nella relazione finanziaria semestrale al 30 giugno 2013 pubblicata in questi giorni e non perché abbia specificatamente interesse a dubitare per questo editore certo che valga altrettanto per gli altri, che tra gli intangible assets, tra le capitalizzazioni, mette a bilancio 400 milioni di euro come valore dei marchi delle testate di proprietà del gruppo.
Un attribuzione di valore che mi ha fatto tornare alla mente quando, lavorando nel settore automotive, che come ho sottolineato più volte ha diverse similitudini con l’editoria, vedevo tra i cespiti attrezzature e mobili delle concessionarie. Valori fittizi che all’ora di, eventualmente, vendere hanno in realtà un contenuto economico realizzabile se non nullo decisamente inferiore a quello imputato in bilancio. Non credo che sia un elemento trascurabile.
Sull’argomento, sulla vendita del «The Washington Post», ma anche del «The Boston Globe» da parte di The New York Times Company, ceduto ad un valore del 97% inferiore a quello di acquisto nel 1993, sono stati scritti centinaia di articoli e molti certamente seguiranno ancora nei prossimi giorni, non ho dubbi.
Tra tutti, dovendone scegliere uno e soltanto uno, credo che il più sensato sia quello scritto da Vittorio Zambardino che ragionando sul tema, in una sorta di lettera aperta a Massimo Russo, spiega che ”il tempo dell’apprendimento è finito, la campanella della scuola in cui era possibile imparare è suonata per l’ultimo giorno di scuola” ed è arrivata l’ora di sperimentare sul campo, di innovare, di fare. Non potrei essere più d’accordo.
Su quali siano i perimetri di azione, di intervento, vale la lettura, infine, il pezzo di Giuseppe Granieri su «La Stampa» che, con tutti i link utili per approfondire, effettua una sintesi efficace dello stato dell’arte e dei pro e dei contro dell’attuale situazione e delle possibili evoluzioni.
Se voleste integrare ulteriormente, come sempre, lo spazio dei commenti è a disposizione.