Un trasloco, sfighe a catena e qualche problema di salute mi hanno tenuto lontano da Indie per un po’. Solo dopo le prime dieci ore di treno, in una appicicosa notte di monsone, mi e’ tornata la voglia di scattare e di raccontare.
La prima cosa che ti dicono quando vai a Bhopal, e’ di stare attenti a cosa si mangia e si beve. Certo dopo quello che e’ successo 26 anni fa e’ normale. Ammetto che dal primo momento che ho messo il piede fuori dal treno, le scene descritte nel libro di Lapierre di quella notte, mi sono presentate davanti. Diro’ una bestialita’, forse, ma la mia impressione e’ che come sempre in India, anche questa mostruosa sciagura si e’ riassorbita nel flusso caotico di una citta’ che e’ devastata da un traffico assordante, cumuli di spazzatura, voragini in strada e un’umanita’ che ogni giorno cerca di sopravvivere, nulla di piu’. Certo anche Bhopal diventasse come Losanna (c’e anche un lago e delle collinette qui, l’accostamento e’ perfetto) il suo nome sara’ per sempre legato alla fuga di gas. Come a Seveso.
Appena arrivata sono andata alla fabbrica, che e’ a una ventina di minuti dal centro storico. E’ ancora una zona industriale, la via si chiama anche Union Carbide street, con pessimo gusto, direi, ed’e’costellata di slum. Sulla recinzione ci sono delle scritte dei gruppi di attivisti (gli unici che tengono duro) e poi c’e un murales con una statua di marmo raffigurante una donna e dei bambini, nell’atto di scappare, almeno ho capito io. Il monumento e’ sul marciapiede di fronte, vicino all’ingresso di un’altra fabbrica che non c’entra nulla. Per visitare l’impianto ci vuole un permesso del ‘Collector Office’, che, penso, sia il magistrato locale. Ho provato la tecnica del sono-una-turista-mi-sono-persa, ma non ha funzionato. Le guardie erano sgamate. Quindi ho seguito la trafila burocratica che mi ha portato in un ‘Gas Victims office’ che e’ una delle cose piu’ kafkiane che abbia mai visto. In un cunicolo, pieno zeppo di armadi di ferro arrugginiti e impolverati, nell’oscurita’, sui delle scrivanie ricoperte da tovaglie che sembravano state usate per anni un una trattoria di camionisti, c’erano due impiegati davanti allo schermo di un computer. Giocavano al solitario. Il mio arrivo li ha visibilmente disturbati. Io mi aspettavo una risposta, tipo, compili questo modulo e ritorno tra un mese. Invece no, anche se con un occhio al tappeto verde virtuale, si sono occupati della mia pratica. Nel frattempo mi sono guardata intorno. Negli armadi, allineato contro un muro fuligginoso e pieno di ragnatele, ci sono i nomi di 10 mila vittime. Alcuni faldoni strabordano. Evfidentemente l’ufficio, creato all’epoca’ e’ rimasto e ora funziona da ‘agenzia turistica’. Mi dicono che ogni giorno 2 o 3 persone chiedono di visitare il sito. Sono stupita. Propongo che li facciano pagare un obolo cosi’ da riparare la sedia di paglia sfondata come quella su cui sono seduta io e anche imbiancare l’ufficio. Si mettono a ridere, ma si vede che sono concentrati sul solitario. Ognuno ha un compito preciso, chi registra il mio nome, chi va a fare firmare il permesso dal ‘joint collector’, chi infine mi da la ricevuta. Mentre il collega si occupa di me, gli altri a turno ritornano a davanti al computer attratti come calamite dal gioco. Questo e’ paradossale, che lo fanno con intorno i morti della piu’ grande fuga di gas del mondo. Mi sembra di sentirla quasi la sofferenza uscire da quegli armadi.
La visita avviene dalle 4 alle 5, un omino con i capelli colorati di henne’ mi scorta. L’impianto e’ sorvegliato da 40 persone pagate dallo stato del Madhya Pradesh che e’ anche proprietario dei terreni. Lo avevo visto gia’ in tante foto, quindi non mi stupisco. Ma nono pensavo che fosse possibile andarci addirittura dentro, sotto il famoso tubo scoppiato. E’ tutto arrugginito, ma intatto. Sono stupita anche dall’erba e dalle piante intorno. Mi immaginavo uno scenario post nucleare, con la terra bruciata…c’erano anche mucche al pascolo, scoiattoli che si rincorrevano e uccellini. Uno scenario bucolico, quasi. A una cinquantina dimetri c’e lo slum. Un bambino con la faccia da monello sorpreso a giocare tra le tubature e le vasche abbandonate, viene riaccompagnato da una guardia alla madre che lo rimprovera. Evidentemente la fabbrica e’ il loro parco giochi. Si mette a piangere. ‘Non possono bere l’acqua, che arriva con le autocisterne da fuori’’mi spiega la mia guida quando gli chiedo se non hanno problemi. Hanno la scuola, assistenza medica e le casette mi sembrano ben messe. Ma perche’ continuano a stare qui, almeno perche’non recintate l’area? Silenzio. Ci penso un po’ su e mi viene in mente la gente che un giorno andando in bicicletta ho visto che viveva sul bordo della fogna nel quartiere di RK Puram, a Delhi, di fianco al mio quartiere. E’ la fogna dove scarica il mio bagno. Si’, domanda senza senso.
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