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Biennale: l’era del boss organico

Creato il 07 ottobre 2011 da Albertocapece

Biennale: l’era del boss organicoAnna Lombroso per il Simplicissimus

C’era una volta la sinistra egemone, quella che occupava la Rai, gli stabili, che condizionava scuole, mode e messaggi, quella degli intellettuali organici, dei film documento, del neo realismo, dell’arte al servizio del popolo, delle riviste, delle case editrici.
Beh doveva essere una delle tante leggende metropolitane, se qualche anno di Sgarbi, Barbareschi, Vespa, Vanzina, De Sica figlio, hanno fatto piazza pulita. Non solo di idee, creatività, bellezza, poesia. Ma di competenze, professioni, arti e artigianato, tecnica e sapere dati in sub appalto e ridotti a trasandato mestiere.

Così persino in una delle più antiche istituzioni culturali del paese, una delle più prestigiose in un mondo che ci deride e compiange, la Biennale di Venezia, viene collocato Giulio Malgara, che più homo novus di così non potrebbe essere non essendosi mai occupato di nulla che avesse a che fare con la cultura e nemmeno con il mondo se non di “affarismo” inafferrabile e indefinibile. Oltre a una inspiegabile presidenza dell’Auditel, che non depone a favore dell’obiettività dell’organismo. Per il resto a vario titolo ha circolato tra oli e pasta acque minerali e cibi per gatti, preferendo l’industria del “mangiare”, che certo è una garanzia, no?
Quello che è certo è che vanta un antico e collaudato sodalizio con Berlusconi, che poi è quello che davvero conta. Oltre che ad aver testimoniato in una delle sue rare apparizioni in tribunale, era solito correre con lui.

Si, si rideva degli “operatori culturali”, degli intellettuali impegnati, organizzatori instancabili di cineforum e contro festival, che entravano e uscivano dai film di moretti o dalle notti visionarie di Ghezzi, facendo cose e incontrando persone. Ma non finiremo mai di rimpiangerli, bene o male, in modo un po’ pasticcione, avevano scelto – a volte non del tutto disinteressatamente – di “servire” quella parte buona della storia: proletari, senza nome, reietti, offesi. Una storia tragica e mondiale, di guerre, speranze, utopie, disperazioni, oppressioni e riscatti.

Si non finiremo mai di rimpiangerli, adesso che Silvio c’è al posto dell’internazionale. E personalmente ho nostalgia anche della loro approssimazione idealista e elitaria, un po’ “cazzara” e sbruffona, perché anche il dilettantismo non è più quello di una volta, anche quello dato in outsourcing a endemol, lele mora, ballandi, ai “caporali” delle veline e dei tronisti. Insomma al primato indiscusso di chi non sa fare nulla, dell’uso improprio, del mostrarsi come quarti di bue arroganti e balbettanti. Perché l’assoldamento avviene per ben altri meriti altrimenti e altrove maturati e anzi una qualche qualità, una qualche vocazione viene vista come un fastidioso orpello, un “di più” di quelli che distinguono gli sfigati, le ragazze brutte consigliate di stare a casa, i vecchi che la smenano con l’esperienza, i comunisti con la loro ossessione sterile e ammuffita per la cultura.

No no la modernità ha già imbracciato il fucile anzi l’ha fatto caricare dai ragionieri al governo che si sa la divina commedia mica si mangia e se si può vendere il colosseo a qualche cordata di amici cinesi, tanto meglio vuoi mettere che gusto c’è a fare una sòla a chi ci taroccava anche le Tod’s dell’aspirante premier? È la globalizzazione no? il fatto è che la globalizzazione, già di per sé ardua, e al posto di quella arcaica mondializzazione, si è ridotta alle dimensioni dello strapaese e delle sue leggi aberranti: la cooptazione per affiliazione, corruzione, assoggettamento. E la concentrazione nelle mani di uno, case editrici, media, cinema, riviste, comunità artistiche, scuole private, ricerca al servizio dell’industria o del governo. Gli intellettuali impegnati sono nel migliore dei casi intellettuali ad aziendam. E d’altra parte la mutazione era necessaria non ne potevano più di quei “tafani” sempre in vena di critica malmostosa, questi ficcanaso e antiquati coi loro libri polverosi, i loro musei in passivo.

Il neoliberismo applicato alla cultura ha mostrato tutta la vecchiezza delle sue ricette: ridurre ogni bene comune alla stregua di prodotto, far sottostare creatività e bellezza e sapere alle regole di mercato, con l’effetto desiderato da condannarli a essere reclusi in caveu, ville a Antigua, cassaforte di Confalonieri, perché sono solo investimenti o passioni bizzarre di qualche tycoon benevolmente assecondato.

E allora in questa massa di nuovi “intellettuali” organici al profitto e alla narrazione di una realtà/spettacolo vuota e finta come una quinta teatrale, tra professorini, giornalisti proni, funzionari maturati nel mondo delle inserzioni e del AAA offresi, scriventi, cantanti, disegnanti, insomma creativi!! tutta questa roba che bisogna far fruttare – altrimenti è meglio toglierla di mezzo con le ruspe, coprirla con sontuosi manifesti elettorali del premier – è meglio darla in mano a dei praticoni, quelli così bravi a stropicciare le punte delle dita per evocare il grato fruscio di soldi, dei danè.

Si la cultura va affidata ai manager. Ma anche in questo caso è meglio scegliersi secondo tradizione, meglio dilettanti, meglio incompetenti, che non si mettano in testa di guadagnare in proprio, soprattutto meglio esemplarmente fedeli. Così fedeli da correre con lui e speriamo anche sparire al suo fianco.


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