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Io non riesco, né in fondo voglio, a pensare come sarebbe Jim Morrison se fosse ancora vivo. E se anche lo fosse, se anche fossero vere le leggende della sua fuga, non posso che ringraziarlo. Perché la sua immagine è quella lì. Quella con la quale sono cresciuta. Perché è vero che quando morì, io di anni ne avevo nove, ma è vero anche che la sua musica e le sue immagini mi hanno accompagnato per anni e anni e anni. Ce le studiavamo le canzoni, le copiavamo dai libri e dalle copertine dei dischi, quelli in vinile, perché Internet non c'era e nemmeno gli iPod. Così studiavamo, Poor Otis dead and gone
/ Left me here to sing his song / Pretty little girl with the red dress on / Poor Otis dead and gone e ci esercitavamo in quel piccolo scioglilingua del Yeah, back down, turn around slowly / Try it again, remembering when. Perché le cantavamo in macchina, nei parchetti con la chitarra, con quelle cassette che giravano e giravano all'infinito, finché il nastro non si sfiniva. E diventati grandi siamo andati anche noi al Père-Lachaise a cercare quella tomba, in quel rituale che ci portava seduti in cerchio, in mezzo ad altri ragazzi di ogni parte del mondo, a cantare di nuovo le canzoni del Jim, che ancora oggi so tutte a memoria. E ancora oggi, 40 anni dopo, l'attacco delle tastiere di Ray Manzarek mi fa sorridere, e se lo sento al mattino lo prendo come portafortuna per la giornata.
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