Bilancio Cannes 2015: l’anno dei film imperfetti

Creato il 28 maggio 2015 da Luigilocatelli

Che Cannes è stato, questo festival numero 68 che si è appena chiuso? Il primo della presidenza di Pierre Lescure, subentrato al mitologico Gilles Jacob, che non s’è mai palesato o mai lo si è fatto palesare, il che non mi pare né bello né chic (se ricordo bene, solo Thierry Frémaux ha avuto parole per lui alla consegna dei premi di Un certain regard, chi ha altri ricordi si faccia sotto, grazie). La francesità che ha sempre segnato Cannes come un gene non mutante, si è ulteriormente rafforzata, e chissà quanta parte ha avuto nell’opera una figura istituzionale come Lescure. Cinque film su diciannove del concorso erano francesi, lo stesso il decoroso ma per niente memorabile film d’apertura La tête haute, che s’è dimostrato soprattutto un vehicle per una Catherine Deneuve alla sua migliore performance da parecchio tempo in qua (e qualcuno lì a sottolineare come Deneuve e Lescure siano stati in passato fidanzati). Molti altri i titoli nelle varie sezioni erano targati Francia o di coproduzione francese. Sì, si è esagerato in rappresentanza nazionale, con il rischio, se si pigia ancora di più sul pedale del bianco, rosso e blu, di togliere a Cannes la sua aura di massimo evento cinematografico super partes e di ridurlo a vetrina semidomestica. Che se gli americani si vedono sottorappresentati e sottostimati, e s’arrabbiano e prendono contromisure, per il festival la minaccia di downgrading può farsi reale. Lo sciovinismo nel programma di questa edizione non giustifica però il penoso spettacolo offerto in questi giorni dagli italici media che hanno ascritto la mancanza di premi ai nostri tre in concorso – Moretti, Sorrentino e Garrone – alla maligna influenza dei padroni di casa. Indicando come prova probante il palmarès dove compaiono ben tre francesi, la palma Audiard, Lindon migliore attore e Bercot migliore attrice ex equo con Rooney Mara. Cui va aggiunta la Palme d’honneur alla 86enne Agnès Varda.
L’ho già scritto, la lista dei vincitori stilata dalla giuria presieduta dai Coen è ineccepibile, i riconoscimenti a Audiard e Lindon meritati, l’unico premio alla Francia da pollice verso è quello alla Bercot. Se poi andiamo a vedere i vincitori di Un certain regard, la sezione B del festival quest’anno estrogenata a ben 19 titoli (parità con quelli della Compétition), vediamo che non compare nessun titolo paracadutato da Parigi.
Le più forti perplessità su questo Cannes se mai stanno altrove, riguardano la qualità media del concorso vistosamente inferiore a quella delle tre edizioni precedenti. Di film eccellenti o belli o bellissimi ce ne son stati, come no. A tirar giù il livello, ad abbassare la media, sono stati i troppi film sballati, se non le vere e proprie bufale, inseriti nella compétition e che invece sarebbero potuti restare a casa lasciando spazio ad altri. Nella mia classifica stanno sopra la sufficienza solo i primi tredici titoli (e sono stato generoso con le posizioni 12 e 13): insufficienti gli altri sei. Dei quali almeno tre inguardabili, al limite dell’imbarazzante, Valley of Love, Louder than Bombs e The Sea of Trees. Ci sono annate ricche e altre magre, e questa non appartiene alla prima categoria, filosofeggia qualcuno. Per altri l’abbassamento di qualità sarebbe dovuto a una consapevole strategia di marketing volta a spingere sempre di più Cannes verso il prodotto mainstream e ad abbandonare l’impronta cinefila-autoriale dell’era Jacob. Troppo presto per capire, i Cannes futuri chiariranno da che parte va il festival dei festival. Non dimentichiamo però tutta la roba buona che è venuta fuori. A partire dal vincitore Dheepan, proseguendo per Lanthimos (The Lobster), Franco (Chronic) e l’ungherese – però residente in Francia – Laszlo Nemes, la rivelazione di questo Cannes con il suo sconvolgente – e non si esagera – Il figlio di Saul. Quanto a Un certain regard: ho visto undici titoli su diciannove, e cinque dei sei premiati. Tra i quali non c’è il migliore, e uno dei più belli visti a Cannes nelle varie sezioni e rassegne, Cemetery of Splendour di Apichatpong Weerasethakul, mentre i giurati presieduti da Isabella Rossellini hanno dato il premio massimo all’islandese Hrutar (Montoni), furbo prodotto su due fratelli-coltelli che di sicuro piacerà alle platee dei circuiti specialty di qua e di là del mondo. Un palmarès dove si alternano cose così così (l’indiano Masaan) ad altre meglio (il rumeno Comoara). Più il giapponese Kiyoshi Kurosawa alla sua opera non proprio più riuscita, anche se molto piaciuta ai francesi (Verso l’altra riva). Intanto la collaterale Quinzaine des Réalisateurs ha mostrato ancor più dell’anno scorso i muscoli, esibendo autori clamorosi come Arnaud Desplechin, Miguel Gomes, Philippe Garrel che sarebbero potuti essere benissimo al festivalone, e che alla visione non hanno per niente deluso, anzi hanno conermato in pieno le attese. E con una controprogrammazione aggressiva al festival, proiettando per dire i film più importanti alle 9 di mattina in contemporanea con quelli del concorso al Palais. Da parte della Quinzaine nessuna soggezione, spirito competitivo, una concorrenza che ha fatto bene a questo Cannes.
Se c’è da trovare una formula per definire che festival è stato – e mi riferisco in particolare al concorso – non tirerei in ballo stupidate da giornalismo pigro come quelle che si son lette da noi, tipo ‘ma quanti film su morti, malattie e varie disgrazie’. In tutti i festival tutti gli anni c’è roba tristerrima. A Cannes 2014, per esempio: si parlava di disoccupazione (il film dei Dardenne), di suicidi (Maps to the Stars), di turbe psichiche (Mommy), di corruzione (Leviathan), di delitti (Foxcatcher, e ancora Leviathan), e mi fermo qua. Io direi che questo è stato l’anno dei film belli e imperfetti. Pochi hanno restituito a chi guardava una sensazione di compattezza, di soddisfacente balance tra le varie componenti (narrativa, messa in scena, ecc.). The Lobster ha una prima parte formidabile e una seconda assai più debole. Il figlio di Saul, un film sull’Olocausto come non s’è mai visto, ha una drammaturgia lacunosa (non è ben chiaro come un Sonderlkommando possa nascondere un cadavere in un campo di sterminio ossessivamente controllato). Il messicano Chronic ha un finale balordo che rischia di travolgere tutto il buono visto fino a quel momento (e son molti ormai, ai festival e fuori dai festival, i cattivi finali di buoni film: sarebbe una faccenda da indagare). Il molto amato, anche se non premiato, Mountains May Depart di Jia Zhang-ke nel suo furioso melodrammeggiare sfiora il kitsch, per non parlare di personaggi che scompaiono chissà dove senza che ci venga data la minima spiegazione. Il fin troppo celebrato Carol di Todd Haynes sbanda paurosamente negli ultimi venti minuti. Sto parlando delle imperfezioni di film buoni o eccellenti, non delle ciofeche. Anche per questo, credo, che la giuria abbia scelto di dare la Palma a Dheepan, il film più compatto e bilanciato, più risolto, più artigianalmente ben fatto insieme a The Assassin (premiato per la regia) di Hou Hsiao-Hsien. Anche alla Quinzaine si è portato a casa un premio il solido Trois souvenirs de ma jeunesse di Arnaud Desplechin. Resta da capire se la presenza di tanti film belli e insieme imperfetti sia casuale o il segno di un cinema sempre più complesso e multistrato, sempre più ibridato nei generi e nei linguaggi, e dunque sempre più difficile da costruire, maneggiare, tenere sotto controllo.


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