Cause my heart stands for nothing and your soul’s too weak
I don’t want to know. Non mi interessa sapere. È ciò che leggo a margine di questo muro, trascritto con il colore del sangue, o delle ciliegie. Indifferenza.
Ho conosciuto il vero significato di questa parola troppi anni fa ormai, ricordo il momento esatto in cui essa si è palesata, ma non ricordo perché attribuì questa parola all’emozione che mi colse, come riuscì a codificarla.
È quello che accade quando le parole hanno una valenza a sé. Parole che precedono gli eventi, che si mostrano prima ancora che tu possa riconoscerli. L’indifferenza si manifesta senza essere invitata, quasi a voler marcare il senso di una precisa occasione che stenta di identità. Che entri pure, fatele largo, perché lei in ogni caso avrà la forza di aggredire qualsiasi debole fremito, qualunque incertezza riesca a catturare, e a travolgere il resto, devastando. Devastandomi.
La mia non è mai apparsa come una storia avvincente. Sono cresciuta con la freschezza delle ragazzine vestite bene e meritevoli di accurati complimenti derivati da un lavoro di buone maniere e pane caldo nel forno. Mio padre funzionario di banca, mia madre insegnante part-time. Una casa edificata e ornata con costanza e timida cura, annettendo ogni particolare senza disturbare quello che già vi giaceva. Agata decise di scandire di un bianco troppo candido e impegnativo la mia camera da letto, come a voler preservare nel tempo una purezza di cui ignorava la futura dipartita, come a volersi illudere che quelle mura avrebbero potuto custodire un’innocenza di figlia, che apparteneva a una stagione che non poteva essere replicata oltremodo. Di finestre spalancate e porte con la doppia mandata, cestini di fiori finti, odore di mandarino di cui ormai era pregno il tavolo della cucina.
Una normalità ben apparecchiata e quasi oggetto di un vanto pacato, ma visibile. Madri impegnate in conversazioni che rasentavano il patetico, riversate sulle tazze da tè di servizi tirati a lucido dopo essere sfuggiti alla prigionia di credenze austere, donne appagate della frivolezza del momento che ogni tanto porgevano l’occhio verso i pargoli impegnati nei giochi e costretti a spartire bambole e automobiline con coetanei di cui non sentivano la necessità di conoscere. Ma non è il caso di fare i capricci, quando hai 8 anni e nessun diritto acquisito, se non quello di sorridere e adattarti allo spazio altrui.
Anche quando la figlia della signora Patrizia ebbe l’ardire di staccare la gamba alla mia bambola io fui obbligata a trattenere ogni ribellione fulminea e a rispondere con un sorriso riluttante e proseguire nel gioco. Indifferenza barattata con il garbo inculcatomi, perché guai a sbraitare per una futilità così sciocca, perché a 8 anni il contegno è sacrosanto, e l’educazione non deve mai abdicare all’insensata ripicca infantile.
Applicai quel codice comportamentale ogni volta che la circostanza me lo richiedeva, congedandomi da ogni possibile rischio e togliendo silenziosamente il disturbo per ecclissarmi dentro quel confetto lattiginoso che ostinatamente chiamavano “cameretta” che mi avrebbe accompagnato per diversi anni, e che strideva verso tutto quello che gridava libertà, verso altri colori che non potevo contemplare, anche se inserita in un corpo da bambina, anche se i pastelli erano stati accantonati da poco, e in cambio mi era stata servita una penna che non avrei più abbandonato, nell’istante in cui avvertì quanto il suo utilizzo sarebbe servito a placare ogni mio urlo disumano verso l’asfissia che perpetuavo con costanza.
Ho sempre avuto la tendenza a dichiarare i miei personali oroscopi e mostrare lo scettro di chi si sfama di vita mordendo ogni pezzo con voracità rasente la peggiore delle bulimie.
Avevo ricevuto in dono una serie di insegnamenti che echeggiavano come passi del Vangelo, e che narravano di manifestazioni di forza e accorgimenti, di evitare ogni forma di debolezza, rinnegare dichiarazioni di fragilità, concedere all’altrui sguardo fierezza e determinazione, perché il rischio che non potevo correre era quello di sopperire alla legge del lupo, di cedere all’arroganza che presumibilmente apparteneva al mio distretto, che fossero le mie compagne di scuola oppure le persone “malintenzionate”, termine molto caro a mia madre. Ai “malintenzionati” si aggiungevano i competitivi, gli egoisti, gli stupratori, i negri, i drogati, le zingare, i teppisti, gli omosessuali. I diversi. Ma diversi da chi?
Camminavo per strada come se stessi scorrendo su lastre di ghiaccio e con indosso pattini da asfalto, inclinata e sporta in avanti e ostinata a mantenere una linea diritta senza la minima possibilità di concedermi una caduta, o anche un sottile contatto con il suolo, come se portassi delle ali difettose con le quali perdevo la quota senza mai godere dell’impatto, e provare il brivido dell’urto. Eppure inciampavo, vittima di uno stordimento che sciorinava il mio asse simmetrico e dovuto a un apparecchio dentale sorbito troppo presto che comprometteva il giusto equilibrio dei nervi che passano da sotto il volto e dirigono la tua postura, il movimento degli arti inferiori.
Cadevo e ne erano testimoni le ripetute sfregature della pelle, dagli strati di epidermide che venivano via e lasciavano che la carne si rivelasse al mondo, consumando la sua piccola cancrena in attesa di immediate cure dal disgustoso odore di mercurocromo e la consistenza asettica delle garze vergini.
Quelle piaghe rappresentavano un trofeo momentaneo, ogni volta che le esponevo agli occhi corrucciati di Agata, cui seguivano sermoni inconcludenti sulla mia incomprensibile distrazione, sulla leggerezza con cui accettavo quella lesione corporea, che non poteva addirsi a una ragazzina di 15 anni che getta le basi per divenire una donna formata. Come se quelle fossero cicatrici da risse in bettole di periferia. Il mio destino doveva seguire il quadretto pietoso di fotografie da America degli anni ’60, con le gonne ampie sopra le ginocchia e i fiocchetti color carta da zucchero ai capelli.
Dovette intervenire mio padre a porre fine a quella messa in scena di fagotto piccolo borghese, impreziosito da aberranti echi da mulino bianco e da famiglia riunita a tavola con il vino novello e il segno della croce.
Ricordo il giorno in cui decise di andarsene. Risoluto come si atteggiava nel privato del suo lavoro, restò in piedi dietro il divano del salotto, fissando un punto qualsiasi della mensola del mobile che sostava di fronte, non concedendo alcuno sguardo a mia madre con la freddezza e la lucidità di un uomo abituato a gestire i numeri. Meno le persone.
Pronunciò poche parole, tenne a comunicare che non avrebbe ritirato i suoi vestiti e gli oggetti personali, che momentaneamente avrebbe dormito da sua sorella, che avrebbe richiamato nei giorni successivi per sincerarsi del nostro stato di salute, che non mi avrebbe fatto mancare niente, e che era mortificato, ma fermo circa la sua decisione.
Mi dispiace Agata, furono le sue ultime parole, mentre mia madre teneva il volto assorto e diretto verso il tavolo della cucina che sporgeva dietro la sagoma di mio padre, per controllare che la pasta non si fosse freddata, anche se il piatto era stato coperto da un altro piatto, nella consuetudine di abitudini casalinghe ormai prive di senso, cui lei era intenta ad aggrapparsi, con tutta la rabbia inespressa, con tutto lo sgomento che non poteva riluttare, con tutto il dolore che sentiva scorrerle dentro.
Mi trovavo seduta a quel tavolo, anch’io impegnata nell’accurata osservazione di quel piatto, di cui oggi ricordo ogni piega ed orpello, per la necessità di distrazione e per offuscare un udito che era stato penetrato irreversibilmente dalle parole di quell’uomo, del padre rassicurante e complice dal quale non avrei mai dovuto temere una spallata meschina o un’ infame condotta.
Rifiutai di riconoscere la sua veste di uomo, perché era l’uomo che stava abbandonando la casa e le sue rispettive donne, per seguire un suo istinto egoista, la prospettiva di un’esistenza riconvertita a nuovo corso, per aggrapparsi al sogno di sentirsi giovane e ancora capace di provare emozioni di cui aveva rimosso la natura. Non provai neppure a fermarlo, a dichiarare il mio disappunto, a pretendere spiegazioni esaustive, a rivolgere a me il suo sguardo, a fissarmi con quella medesima decisione che l’aveva portato a compiere la scelta finale, e straziante, ma solo per chi la subisce, per chi è dentro l’abbandono, per chi resta a mirare una scia che scompare, per chi sente sbattere contro l’inevitabile perdita di una certezza, e cade nell’oblio.
Fui gelida, composta, lasciai la tavola e mi curai che mia madre non si fosse accasciata per terra in balia di quel fiume di dolore che l’aveva appena colpita con tutta la violenza che comportava l’evento. La trovai rigida e riversa sul divano, con le mani giunte e strette come un nodo da mozzo, il volto immobile come se avesse indossato una maschera di ceramica spenta, ma devastata da filamenti di lacrime che scorrevano ordinate e in grado di non sconvolgere il resto del viso, senza lasciare il trucco sbavato, senza alcun suono della voce. Eri bellissima mamma, nella tua interpretazione di una morte vigile e indifferente.
Nei mesi che seguirono non accennammo mai a papà, non era presente nelle nostre conversazioni, non comunicavamo circa le volte in cui rispettivamente riuscivamo a vederlo o sentirlo, non era più nei nostri luoghi, e presto ciò divenne palpabile anche nei nostri scambi verbali.
L’indifferenza che aveva pervaso entrambe non ebbe il potere di legarci ma fece in modo di costruire un cortese rapporto genitoriale senza sbalzi eccessivi, un rispetto reciproco che non si tramutò in una complicità femminile amichevole, né in una guerra fredda ad armi spiegate. Restavamo salde dentro i nostri ruoli, e nessuna ingerenza fu consumata, neppure quando mia madre prese coscienza delle mie evidenti mutazioni. Dovette rinunciare all’immagine della figlia a modo, dovette accettare i miei chiodi di pelle, la mia moda vintage, la mia libreria colma di libri di cui lei non rammentava alcuna utilità pratica, e ancora le sigarette, la mia affezione alle arti, i miei pigli ribelli, la sua assoluta assenza nella contemplazione di ogni mia scelta.
Scelsi l’indifferenza, e scelsi di preservare la mia dimensione concedendola solo alla carta, legandola all’ inchiostro negandola al mondo fuori. Impedì che gli accadimenti che costellavano i miei giorni potessero infrangere la cortina di riserbo che mi ero finemente costruita. I miei turbamenti non filtravano e non potevo definirmi neppure timida o schiva, tutt’altro. Mi calai nella parte di chi si muove imperturbabile e scambiavo sorrisi vivaci e accesi, che spesso rasentavano il grottesco per quanto fossero autentici e nel contempo distaccate rispetto all’inferno che albergava dentro di me.
Perpetuai a lungo stabilità vistosa e confortevole rilassatezza. La frustrazione, come l’insicurezza, viaggiava su fogli sparsi cui era sommersa la mia camera, che profanai a maniera ricoprendola di fotografie, poster, bacheche di sughero, biglietti del cinema, mappe di viaggi, per inquinare quello sfondo ipocrita, per violare quella verginità stucchevole, per connotare le mura che dovevano contenere ogni granello credibile che potesse descrivermi.
Indifferente fu la mia reazione quando mio padre ritornò da noi, due anni dopo la sua fuga laica.
Rincasai dopo una giornata macinata in una caffetteria del centro, con in mano un caffè americano imbevibile e il sapore di due Winston scroccate da Giulia per eccesiva pigrizia di rifornirmi di fumo, chiacchiere scroscianti e confessioni civettuole di due ragazze comuni. Ero dentro un giorno qualunque.
Varcai l’uscio dell’ingresso e i miei occhi furono catturati dalla vista di un borsone da palestra color melanzana accanto a una ventiquattrore di pelle consumata. Le sinapsi riconobbero i dati distintivi del mio “vecchio”. La visione di lui intento a cingere mia madre in un abbraccio dimesso e agghiacciante mi portò a fare un passo indietro e quasi ad inciampare in quegli orrendi tappetti persiani tanto idolatrati da Agata.
Riconobbi mio padre ma non riconobbi quell’uomo. Nella sua parte di marito mortificato e munito di rinnovata coscienza, completamente asservito nell’ammettere le sue colpe, rintracciai ogni misera manifestazione di insulsa debolezza maschile, di estrema fragilità umana, di disperazione lacerante camuffata in espiazione. Riconobbi tutto quel marasma di confusione accecante che l’aveva spinto anni addietro a fuggire via, come un clandestino sottratto al suo destino inevitabile. Non era più un uomo, era semplicemente un padre in perdita.
Avrei voluto sfogare il mio disaccordo rispetto a quel finale melenso di commedia romantica a basso prezzo, rovesciare tutta la mia rabbia per quel ricatto cui Corrado aveva ceduto, barattare un’illusione di mancata solitudine rispetto al coraggio di perseguire un’ennesima strada in salita, da solo o con l’amante di turno, ma pur sempre un nuovo cammino, che lui stesso aveva deciso di intraprendere, intendiamoci. Avrei voluto, ma non lo feci.
Aveva fallito miseramente, e non aveva avuto alcuno scrupolo nell’abdicare alla sua dignità, riprendere le fila della vita cui aveva rinunciato, certo che la donna che aveva sposato non avrebbe espresso alcuna contrarietà e l’avrebbe accolto senza porgergli rancore, nel letto come tra le stoviglie. Niente era mutato dal giorno in cui Corrado si dimise dal compito di marito fedele e padre premuroso. Anche la cena fu servita per tre come se quella pratica non fosse mai passata in disuso, come se apparecchiare per due fosse stato un incidente di percorso assoggettato a un limbo di cui dovevano essere rimosse le tracce.
Rimasi seduta al tavolo, osservando entrambi, come un’aliena calata da una dimensione remota, non proferii parola, e quel silenzio tombale gonfiò l’aria intorno e risuonò come la mia personale sentenza circa quello scempio.
Mangiai pochissimo e vomitai tutto. Fu l’unica volta che cedetti alla tentazione di convertirmi ad un’anoressia che mi avrebbe consacrato a vittima perfetta di una violenza che non dipendeva da me. La mia pigrizia congenita e la mia eccessiva consapevolezza non mi permise di proseguire nella privazione del mio nutrimento. Non avevo energie a sufficienza da sprecare in un controllo del cibo e del peso, non lo reputai necessario. E non era più di moda.
Agata provò a scoperchiare quel muro vistoso di indifferenza e distacco, il giorno seguente, mentre io contemplavo la meraviglia di un caffè bollente come unica attrazione di un giovedì senza eccessive pretese.
“Tu mi giudichi vero? Mi odi, mi disprezzi. Sei ingiusta, figlia mia. Non puoi comprendere e un giorno anche tu capirai…”
Furono queste le poche parole che riuscì a inoltrarmi, nel goffo tentativo di preservare il suo scudo di sicurezza mischiata a perbenismo, tutelando la madre e rivendicando la donna, nella ricerca del mio plauso, o di una reazione possibile.
Non provai nemmeno a instaurare un dialogo verbale con lei e mi limitai a chiederle tacitamente di seguirmi con lo sguardo mentre ero intenta a indicarle lo specchio che era appeso in salotto. Vidi il raggelato piglio che le scoprì una minima forma di debolezza e che andò a palesarsi sulle labbra e sulle vene poste all’estremità della guancia destra. Aveva suggellato il suo destino e soltanto il riflesso di se stessa sarebbe valso come intimo confessionale per espiare la percezione del suo operato.
Aveva affinato il suo essere squisitamente donna. E in quella dimensione aveva irrimediabilmente trascinato anche me.
Indifferente e sottile mi sarei mossa da quel momento e per il tempo a venire nei confronti degli uomini che scandirono i miei giorni.
Indifferente comunicai a mio padre che avrei studiato lettere moderne alla Statale di Milano per ricevere come risposta un sorriso sornione e un profondo imbarazzo per la sua assenza di tempra mescolata ad un vistoso senso di colpa che lo accompagnava sovente e che gli impedì di opporsi a quel “suicidio” in cui avevo deciso di calarmi.
Indifferenti sono stati i modi e le scansioni delle relazioni intraprese con i ragazzi incui sono imbattuta. Concedevo l’interpretazione più autentica dell’eroina sentimentale e fedele estrapolata da tutta la letteratura che divoravo, prestando una solarità e una sicurezza genetiche ma che viaggiavano soltanto in superficie, badando scrupolosamente a non farmi intaccare da bisturi insolenti di chi non voleva accontentarsi di quella parte teatrale e timidamente tentava di progredire a fondo, di incidere quella corazza congegnata, di far sgorgare qualche segno di imperfezione, di normalità fallace.
Reagivo, rammaricata ad ore e distrattamente risentita, ad ogni interruzione d’intenti, ad ogni lascito, ad ogni fine rapporto.
Presto l’indifferenza ritrovava la sua posizione primaria e io ritornavo a sentirmi impermeabile ad ogni turbamento infausto.
Era immensamente suggestivo entrare nelle vite degli altri, che fossero semplici conoscenze o complici di letto, farsi un giro completo nel racconto che mi servivano, andare a sfogliare le pagine inespresse di ciò che non necessitava di note a margine, un po’ per pudicizia un po’ per salvaguardia dovuta, e poi uscire di scena, nuovamente, e ricomprare un ennesimo biglietto per risalire sulla giostra successiva. Non disponevo di pazienza e cedevo alla furia di vivere, non intendevo fermarmi, non potevo compromettere il mio castello di vetro, in cui andavo a riflettermi per ammirare tutta la freddezza che ero riuscita ad incamerare, con un insano orgoglio di vincita, di scaltrezza. Giocavo d’anticipo.
Poi Vanni, e la mia roccaforte frantumata in mille pezzi.
Nitido è il ricordo che passa attraverso ogni singolo minuto in cui lo rivedo nella memoria, dal giorno in cui i miei occhi decisero di scuotersi da quel museo pietoso dentro cui mi ero camuffata, e si atteggiarono indipendenti, consegnandosi alla sua area visiva.
Assordanti rimbombano quei pezzi di vetro che crollarono, uno ad uno, tutte le volte che la sua presenza si fece costanza, in un meraviglioso tragitto che vide il suo inizio dentro i Navigli e il suo corrermi affianco in ogni luogo in cui attraccammo i nostri cuori stanchi dai colpi inferti alla loro scorza, affamati entrambi di bellezza o di semplice quiete, di consistenza autentica, di illusioni che potessero regalarci attimi di scampo.
Vanni e il suo essere così fragile senza applicare a sé il minimo sforzo di non apparire tale, anche se non rivelava esplicitamente la sua bruttura emotiva, il suo collasso virale, anche se applicava un ulteriore silenzio a qualcosa che mette paura solo ad accennarsi. I suoi gesti e i suoi occhi valevano la comprensione di quel malessere, di quel concentrato di insofferenza di vita. Il suo sorriso puerile e spiegato trafugava ogni perplessità circa il suo bisogno d’amore e la sua urgenza di sperare in una salvezza imminente, in una tutela reale. Fui io a costellare di parole cariche di senso ogni sua richiesta d’aiuto, non era importante la modalità in cui io e lui ci dislocavamo nello spazio, era un vortice magnetico in cui eravamo stati attirati e che aveva dettato il nostro saldarsi a vicenda.
Non mi curai subito del suo egoismo nel volermi trattenere a sè, ma alle condizioni che aveva dettato al complesso della sua vita, nel tenermi sposa incontaminata e in perenne attesa su un altare già occupato da una donna diversa da me. Il sacrificio di slanciarsi verso un vuoto inespresso, che narrava un ciclo di cui lui era ignaro, sarebbe stato devastante e pericoloso.
Le conseguenze del suo egoismo le accusai in seguito.
La mia indifferenza è venuta meno a fronte di tutta la costellazione di comprensione sanguigna che Vanni fu in grado di gettarmi contro. Smise di simulare forza, di perpetuare nel suo gioco di lord decaduto, era aperto e dispiegato come il ventre di un’automobile, ed era vero, era un uomo dalle fattezze della carne cruda e dall’anima amplificata come un grammofono sulla spiaggia.
Mi regalò la percezione che era possibile andare a fondo dentro gli antri che un uomo custodisce e che non ha timore di ammettere, non come mio padre e il suo carrozzone di fermezza adulta e conformismo sdrucciolo e disastroso.
Mi ha insignito di una essenza che io trascuravo, mi ha concesso la sua fede e ha rimesso nelle mie mani le sue speranze, ma non mi ha scelto.
Non ha completamente varcato quella linea impercettibile che lo divideva dal suo calvario quotidiano per avvinghiarsi a quella prospettiva che gli avevo tratteggiato, che finalmente potevo offrigli. Perché ormai spoglia da ogni barriera, avulsa da ogni volgarizzazione letteraria, avevo posato gli abiti di una sciocca Anna Karenina e avevo indossato quelli di una donna completamente a nudo. Ero miserabile, ma avevo ritrovato un’umanità che credevo persa per sempre.
Vanni, non mi hai scelto fino all’ultimo istante, hai preferito restare ai margini della tua vile esistenza, al confine di quel freddo binario 10 di Milano Centrale.
Hai permesso che io mi rifugiassi in una città altrettanto glaciale e senza spiccato calore, trafitta da canali che cercano di replicare una romanticheria che non le appartiene e si confonde tra i fasti delle sue droghe e la velocità ridondante delle sue biciclette. Amsterdam.
Mi hai servito tutto il tempo utile affinché io potessi inglobare un uomo come Giorgio, un ragazzo che non mi ha fornito alcun dubbio e non mi ha concesso il minimo esperimento di rendergli l’esistenza migliore, di risollevarlo da uno stato di dramma esistenziale, ma, diversamente, ha chiesto di accettare il suo prototipo di persona appagante rasente la perfezione, di far spiccare il suo innato agire da modello esemplare di uomo senza sbavature o deficit privati. La mia affezione a lui e l’amore che lui rivendica nei miei confronti sono l’attestato di lode per esaltare il suo comportamento encomiabile e scandire gli applausi di un pubblico inesistente.
Giorgio non dichiarerebbe il suo intento egoista nella contemplazione di sé, perché spreca fatiche immani a far quadrare il suo resoconto e la sua performance da uomo del secolo, regalandomi tutte le emozioni che il suo sussidiario riscritto. Mi considera troppo ingenua o troppo disperata tanto da illudersi della mia inconsapevolezza rispetto alla sua maestria vuota e anaffettiva. Gli rendo la cosa meno indolore, mi offro a lui ritornando ad indossare i miei costumi sentimentali e i miei prestiti letterari, perché ad un egoismo così ben congeniato non si può rispondere altrimenti. Lo chiamano giusto mezzo.
Siamo tutti un po’ egoisti.
Tu Vanni, l’hai dichiarato esplicitamente. Ed è il tuo grande pregio, quello di aver rinunciato a fingere.
Perché il tuo volermi, il tuo cercarmi, il tuo aver accolto il percorso che ti avevo tracciato verso la città in cui ora ti trovi, quella Bilbao che dovrebbe rappresentare il tuo riscatto decisivo, non sono altro che nuove forme di egoismo ma presentate sotto una veste rinvigorita dal contatto con il nuovo.
Ritorni da me, rinsavito perchè conscio di aver seguitato un cammino che non ti appartiene, forse in un disperato gesto di cambiamento effettivo, forse totalmente incurante delle conseguenze e quindi molto vicino ad una disperazione insostenibile, o una presa di coscienza ultima.
Ma non è me che vuoi, Vanni. Sceglierai sempre te stesso, ma del resto è una pratica comune a tutti gli uomini.
Vuoi la guida, vuoi la spalla, vuoi il contenitore delle tue lacrime, vuoi il lumino che ti ha condotto fino al momento prima di fornirti il brivido dell’autosostentamento.
Davanti a me si erge questo muro che chiude la strada e a me appare sovrapposta la visione di te che rifuggi dal mio sguardo ma che resti statico nell’attesa che io esegua qualche gesto eclatante, mentre io mi atteggio con una vacillante e prudente Indifferenza. Immobile.
Ti vedo a nudo, come vidi mio padre quando rincasò definitivamente.
La tua anima è a nudo. Come la mia.
Anche tu sei un miserabile.
Ed è anche per questo che continuo ostinatamente ad amarti.
Mia madre sarebbe fiera di me. In fondo è giunto il giorno in cui avrei compreso
Foto di copertina: Presente/passato, Salina di Benedetto Tarantino