L’alterco è iniziato quando Maher, parlando di principi come la libertà di culto e di parola e la parità di genere, ha detto: «Questi sono principi a cui i liberal applaudono, ma poi quando dici che è ciò che manca nel mondo musulmano, allora si agitano». Harris gli ha fatto eco: «Il punto cruciale di confusione è che ci hanno venduto questo chiodo fisso dell’islamofobia in cui ogni critica alla dottrina dell’Islam viene accostata all’intolleranza nei confronti dei musulmani in quanto persone. È intellettualmente ridicolo». Affleck, inserendosi, ha obiettato che l’islamofobia è un problema reale, non un luogo comune retorico, e che i discorsi di Maher e Harris gli sono sembrati «volgari e razzisti».
La discussione è sempre d’attualità, negli Stati Uniti come in Italia, e le azioni dello Stato Islamico in Medio Oriente non hanno fatto altro che acuire il dibattito e indurire le contrapposizioni. Sul Daily Beast Michael Tomasky sostiene che «la riluttanza a criticare le carenze delle altre culture è un problema del liberalismo contemporaneo», posizionandosi dalla parte di Maher perché, scrive, «il nocciolo della missione del liberalismo è supportare gli umanisti laici e i democratici (con la minuscola) di ogni parte del mondo, ma in particolare del mondo musulmano». Cita il caso di Ayaan Hirsi Ali, che prima di radicalizzare le sue posizioni anti-Islam a parere di Tomasky non ha trovato spazio fra i liberal statunitensi per un equivoco di fondo, in parte figlio di una certa interpretazione del relativismo culturale: i dibattiti inerenti al multiculturalismo hanno ragione di esistere, spiega l’autore, in società già dotate di infrastrutture garanti di diritti e libertà; se noi li applichiamo a zone che non le hanno ancora sviluppate finiamo per imporvi i nostri valori occidentali e perdere di vista il vero fulcro della questione.
Personalmente, se dovessi scegliere da che parte stare, pur coi limiti dell’esposizione delle due teorie in diretta su HBO, sceglierei comunque quella rappresentata da Affleck. Perché sono convinto, come anche Tomasky, che l’universalità dei diritti sia un pilastro irrinunciabile del liberalismo, che l’ideologia e la fede abbiano un ruolo fondamentale nello sviluppo della persona – specie in luoghi dove le istituzioni politiche sono assenti, o corrotte e di fatto inservibili - ma sono anche consapevole che la critica liberale deve tener conto delle differenze, delle specificità e delle declinazioni dei culti: l’Egitto di Nasser era una cosa, la Siria di Assad, ad esempio, è del tutto un’altra; dando per scontato l’assunto conseguente alla tesi di Maher e Harris, “l’Islam genera violenza/intolleranza”, si fa un errore di metodo, ancor prima che di merito, poiché non si considerano le sue specificazioni storiche e sociali. Detta in poche parole: un quarto della popolazione mondiale è di fede musulmana, per cui credo che il vero dibattito dovrebbe vertere innanzitutto su cosa (e perché) rende un musulmano un fondamentalista. È giusto applicare lo stesso metro “liberal” per tutti, ma non si può pretendere di postulare un legame causa-effetto di carattere univoco così rischioso. Se le sovrastrutture garanti dei diritti a certe latitudini mancano, il compito di quel liberalismo citato sopra è sostenerne la genesi (e non penso che dare a un credo una connotazione negativa tout court sia qualcosa di costruttivo, in questo senso), non limitarsi a delimitare coi paletti cosa è liberal e cosa no. D’altronde, se noi occidentali possiamo vantare più diritti e più libertà, storicamente non li dobbiamo certo al cristianesimo.