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Billy Elliot è una favola ai tempi della sciagurata vicenda della chiusura delle miniere del Regno Unito: come in Grazie, signora Thatcher! o in Full Monty. Ma, a differenza di questi e altri film, abbiamo qui una chiara apertura del futuro nella poverissima periferia inglese. Il piccolo protagonista, undici anni, si scopre affine al balletto, senza per altro mettere in dubbio, come vorrebbe l'immaginario collettivo, la propria identità sessuale. Billy (Jamie Bell) non sa neanche lui cosa provi, è troppo piccolo per conoscersi, la sua è l'età dello scoprirsi.
L'energia del ragazzo è tutta maschile e commovente: non balla, sembra che esploda nello spazio. Il giovane diventa uomo nella danza, guarda al mondo da una prospettiva diversa e riesce a squarciare la tristezza di una situazione sociale che appare senza scampo. Lo stesso montaggio impressionistico sfugge al realismo con quelle scene brevissime e il rifiuto sistematico della narrazione lunga da piano-sequenza. Mentre il padre (Gary Lewis) e il fratello Toni (Jamie Draven) protestano per i loro diritti e ogni mattina si appostano per impedire il passaggio dei crumiri, Billy va verso la sua vita. La sua cecità al reale lo salva dalla dipendenza da uno stato incapace di accogliere le richieste dei più deboli. Il giovane non sa perché balli, ma sa che lo fa, lo fa come se sparisse, perché lui è elettricità.
Una storia si fa spazio nel problema collettivo dei minatori; e non è la vicenda di una lotta con sé stessi, come in Shine di Scott Hicks, o di una generica lotta contro il pregiudizio; ci sono le strane idee in corpo che qualcuno pare abbia messo nel ragazzo, come accade ne L'attimo fuggente di Peter Weir, solo che nel caso specifico non si tratta di ostinazione, bensì di un luminoso istinto, il solare irrompere di un'allegria gagliarda e sicura nel grigiore di un labirinto qualunque dai mattoni rossi (e niente tra le pareti); nello strisciare di una vita da cui non si fanno illudere. Splende, col sentimentalismo più toccante, la bellezza di una fiducia fiabesca nel futuro.
Mi pare che la forza di Billy Elliot stia proprio nella finestra che si apre sul mondo reale di chi non afferra la pregnanza della Storia. C'è un briciolo di anarchia in questo mondo dove si tira a sopravvivere, con il cimitero sempre davanti agli occhi e il passato di affetti alle spalle. Il campo di battaglia è duro e non tutti sopravvivono: ma Billy viene sottratto quasi per magia all'idea stessa della competizione, per la sua vita o per la vittoria. Vincere è scoprirsi fino in fondo e ciò non può esser messo in dubbio, perché è una necessità.
Billy Elliot, dicevo, è appunto una favola. Certo, può deludere lo spettatore che si arrenda alla facilità con cui un abracadabra risolve tutto (anche se sarebbe ingiusto negare che è un atto del ragazzo, una prova di coraggio, a consentirgli di, diciamo, passare allo stadio successivo). O chi si aspetta un romanzo di formazione: Stephen Daldry procede dritto verso la chiusura e il personaggio non cresce davvero, si ritrova adulto.
Che poi, da adulto, Billy si ritrovi a danzare proprio nel discusso spettacolo di Matthew Bourne su Il lago dei cigni è a mio avviso semplificazione pop fuori luogo e dannosa per il discorso sulla libertà e la forza interiore che Billy Elliot sviluppa a suo modo. Il vero lieto fine di questa storia sta tutto nello sguardo a noi e in quello al futuro. Ovunque ci sia la forza di superarsi.
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