Attenzione: le ultime tre righe potrebbero essere considerate spoiler.
Birdman è una lunga illusione di piano sequenza, poiché tempo di proiezione e narrazione non coincidono al 100%. È anche una critica al cinema hollywoodiano, che si nutre di blockbuster mediocri, pieni di “azione” ed esplosioni: la gente si annoia ad ascoltare “dialoghi filosofici del cazzo” e preferisce fuoco, violenza, deliri di onnipotenza. Ma siamo sicuri che “azione” voglia dire solo rumore, casino? Un conflitto interiore non è “azione”? Raccontato come si deve, certo, in modo che si possa evincerlo da quello che succede sullo schermo, dalle interpretazioni degli attori – da elogiare anche solo per il sangue freddo di cui sequenze così lunghe hanno bisogno – e dalle emozioni che trasmettono, necessarie per portare avanti la storia. Che film sarebbe stato Birdman senza i fantasmi di Riggan Thomson (evidentemente gli stessi di Michael Keaton e del suo Batman), cui si aggiungono i problemi con la figlia e con la “compagna”? Cos’è più efficace, un palazzo che esplode o un rapporto precario che si frantuma definitivamente in una manciata di secondi?
Lo stesso sistema che Birdman accusa, però, è anche parte del racconto di Iñárritu: lui lo sa, non lo nasconde, ci marcia un po’ su – ed è normale, anche giusto, per un meta-film. Una storia in cui finto e sincero si confondono continuamente, e proprio il montaggio senza stacchi contribuisce a mescolare le carte senza sosta. Realtà e finzione si mescolano così bene che non c’è più un confine tra il desiderio di uscire dal costume dell’uomo-uccello e le pulsioni autodistruttive di Thomson; di andare oltre la finestra di quel camerino, di quella camera d’ospedale, che non è più un’apertura su quello che si potrebbe essere ma una cornice troppo stretta di quello che si è già stati. Riggan può però essere soddisfatto. Ha un naso nuovo: il naso di Birdman.
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