Aldilà del titolo c’è parecchia oscurità in questa opera prima firmata dal promettente Vardis Marinakis: zone d’ombra, assenze di luce, anime nere.
Il primo segnale ce lo danno le suorine all’interno del convento labirintico che più che serve del signore sembrano fantasmi di petrolio in un oblio di pietre e nuvole. La fortezza buzzatiana in cui vivono queste donne attua, come è prevedibile, un allontanamento dal resto del mondo, soprattutto quello maschile, e infatti una delle suore dirà ad Anthi che l’arrivo del cavaliere moribondo è un’occasione più unica che rara per vedere un uomo nudo.
I riti religiosi uniti alla severità delle più anziane e a quella posta più in alto relativa a chissà quale dogma che obbliga ad una dura (sotto)vita dove anche i letti sono di marmo, pesano sulle spalle di una ragazzina abbottonata in un quasi mutismo che prega ossessive litanie e si autoflagella per espiare una colpa di cui niente può.
Ma l’idea di trovarci a ragionare su un Magdalene (2002) traslato nell’impero ottomano scema piano piano perché ci si rende conto che nel complesso la comunità non è particolarmente oppressiva, ed anche le più anziane invece di sfogare la propria frustrazione sulle più deboli come accadeva nel film irlandese, si abbandonano ai piaceri della carne.
Quindi, se la denuncia della realtà religiosa di quel tempo viene omessa, d’altronde non avrebbe riscontrato molto interesse, ecco che si arriva al secondo fattore di oscurità.
In modo prosaico si potrebbe dire che tale mistero penzola tra le gambe di Anthi, in realtà se si intraprende un poco la strada psicologica si comprende che l’esistenza di questa ragazza (nei fatti è l’attrice Sofia Georgovassili) è un pauroso buco nero poiché istigata a vivere contronatura reprimendo ogni sentimento, ché la preghiera non è certo catarsi degna di nota.
L’arrivo dello straniero è un terremoto.
Il secondo blocco del film, quello che vede i due nel bosco, diventa un silenzioso saggio di cinema sopraffino in cui le placide traiettorie visive mostrano il lento avvicinarsi reciproco costituito da momenti crudi (il primo rifiuto), ed altri di progressiva intimità (la scena del salvataggio nel fiume).
Nonostante il ritorno al monastero segni un piccolo giro a vuoto nella narrazione, urge un ulteriore slittamento interpretativo. Se Mavro livadi (2009) non è un’opera che ha l’intento di ritrarre l’inefficienza religiosa dell’epoca, e non ce l’ha, allora non è nemmeno una storia d’amore perché mancano degli ingredienti, in particolare sul versante mascolino, e ciò si evince dal coito selvaggio del finale: una volta che il rapporto è terminato lui sparisce fra le fronde mentre lei, inquieta e svezzata, inizia a vagare nel bosco per trovare rifugio in una grotta la cui fenditura assomiglia al taglio vaginale, e qui, nel buio grembo della natura, si addormenta pronta a rinascere nuovamente.
Allora, in conclusione, Black Field è un film di rinascita, e perciò di crescita.
Appuntatevi questo nome: Vardis Marinakis. La Grecia, teatro principale della crisi europea, ha nel suo cinema contemporaneo un appiglio a cui aggrapparsi, e noi con lei.