Su James “Whitey” Bulger, il criminale più potente e spietato di Boston, sono fiorite negli anni più che leggende intere mitologie. E’ stato per oltre un decennio – fino alla sua cattura nel 2011 – nella lista dei più ricercati dall’FBI, secondo solo ad Osama Bin Laden. La cosa assurda è che Bulger non avrebbe mai raggiunto una tale posizione se non avesse avuto l’appoggio dello stesso FBI.
Nato nel 1929, primo di sei figli, da una poverissima famiglia cattolica di Dorchester, a Boston Sud, a 10 anni scappò di casa per unirsi a un circo; a 14 fu arrestato la prima volta, per furto, e poi ancora per aggressione, falsificazione, rapine a mano armata. Uscito dal carcere minorile si arruolò, e anche in quei pochi anni da meccanico d’aviazione diede larga prova di sé. Restò libero per poco: per l’ennesima rapina nel 1956 finì di nuovo in carcere, ad Atlanta. Qui in 18 mesi, come molti altri detenuti, fu sottoposto a 30 trattamenti sperimentali a base di LSD, all’interno del cosiddetto Progetto MK-ULTRA della Cia. Trasferito ad Alcatraz e poi a Leavenworth, nel 1965 fu scarcerato e tornò a Boston, dove sfruttò le conoscenze acquisite e la fama guadagnata iniziando a fare sul serio nell’ascesa delle gerarchie dell’Irish Mob, la mafia irlandese.
Nel frattempo un altro membro della famiglia Bulger faceva tutt’altra carriera. Suo fratello minore William Michael, detto Billy, grazie ad una serie di borse di studio riuscì a laurearsi brillantemente in letteratura inglese e poi in legge. Nel 1959 cominciò ad interessarsi alla politica; venne eletto per i Democratici per 5 mandati al Parlamento del Massachusetts e dal 1978 ripetutamente al Senato dello Stato.
Dallo stesso vecchio quartiere veniva anche un altro irlandese: John Connelly, ambizioso agente FBI più interessato al tornaconto personale di una brillante carriera che al bene del Paese. Aveva ricevuto l’incarico di liberare Boston dai mafiosi italiani, i criminali più “appariscenti” e certo i più pericolosi in città. Perché non prendere due piccioni (anzi tre) con una fava: sconfiggere gli italiani con l’aiuto degli irlandesi, cioè eliminare dei grossi nemici per mezzo di vecchi amici, in un doppio scambio di favori, e insieme diventare quasi un eroe nazionale. Con il consenso dei superiori, inizialmente titubanti, nel 1975 Connelly contattò Jimmy Bulger – in fondo erano stati vicini di casa per tanti anni. E Whitey accetto: avrebbe passato all’FBI in segreto (nemmeno i suoi uomini più fidati ne furono mai al corrente) tutte le informazioni in suo possesso sulle attività criminali della famiglia Patriarca. In cambio, naturalmente, il Bureau avrebbe chiuso un occhio sulle sue.
Un vero acrobata Connolly: encomiato per le sue vittorie nello sconfiggere il crimine, fece una carriera rapidissima. E intanto faceva i salti mortali per nascondere ai superiori l’insabbiamento di decine di omicidi ed altri gravissimi reati compiuti in prima persona da Jimmy Bulger e dai suoi uomini della Winter Hill Gang. Grazie a lui in meno di 3 anni Whitey si era liberato della concorrenza; era diventato il re delle estorsioni, il boss del gioco d’azzardo e il maggior trafficante di droga del Massachusetts – ed era a tutti gli effetti intoccabile. Quel gigantesco castello di carte, costruito su processi annullati per vizi di forma intenzionali (“ci penso io a fare una telefonata al Procuratore”), testimoni fatti sparire, poliziotti, funzionari e politici locali corrotti, impiegò quasi vent’anni a crollare: il nuovo capo della sezione di Boston dell’FBI, appena insediato volle vederci chiaro e, con non poco pubblico imbarazzo, ci vollero anni di lavoro per mettere fine alle attività della gang.
I giornalisti Dick Lehr e Gerald O’Neill seguirono per il Boston Globe questa storia incredibile fin dal 1988 e scrissero nel 2001 il libro Black Mass: The True Story of an Unholy Alliance Between the FBI and the Irish Mob, che è stato d’ispirazione per questo film.
– Sai cosa faccio alle spie, John?
– Non è fare la spia, Jimmy. Si tratta di un’alleanza.
– Un’alleanza? Tra me e l’FBI?
– No, no. Tra me e te… Un’alleanza come questa non ti indebolisce, Jimmy. Ti rende più forte.
Il nucleo del film sta tutto in questo breve dialogo, nel momento del patto scellerato fra lo spregiudicato agente trentenne, accecato dall’ambizione, e il quarantenne criminale di lungo corso, che ha da subito le idee chiarissime su come potrà sfruttare la situazione. Un altro dialogo, apparentemente innocuo ma significativo, avviene in una delle prime scene. Al tavolo della colazione col figlio di 6 anni, la madre spinge il bambino a raccontare di aver dato un pugno a un compagno di classe. E Jimmy: “L’errore non è stato colpirlo, solo dovevi farlo quando nessuno vedeva. Se nessuno lo vede, non è successo.” E’ quello stesso Jimmy che massacra un uomo in un parcheggio (condannato per due omicidi, ne ha probabilmente commessi di persona almeno 11) e poco dopo aiuta una vecchietta, vicina di casa di sua madre, a portare in casa le borse della spesa. Non per nulla per molti era una specie di Robin Hood di quartiere.
L’adattamento cinematografico di un libro non è mai facile, soprattutto quando parla di fatti reali e per di più recenti. Il grande difetto di questo film è nella presentazione puramente cronachistica dei fatti. Drammaticamente è del tutto insoddisfacente, è privo di sfumature e di un minimo di colpi di scena, non riesce ad appassionare per una totale mancanza di connessione emotiva fra vicenda e spettatore. La linearità che sconfina nella piattezza lo fa somigliare a una di quelle trasmissioni tv un po’ morbose dal titolo “True Crimes” o simili che vanno in onda a tarda notte sulle reti minori. Sarà anche colpa dei personaggi, non ce n’è uno positivo: ci sono spacciatori, estorsori e assassini da una parte, e tutori della legge maneggioni, corrotti o nel migliore dei casi inefficienti dall’altra. Le sole tre donne presenti (la moglie di Connelly, la donna di Whitey e la sua giovanissima amante) o sono del tutto ininfluenti o fanno una brutta fine. Stranamente, per essere un film di gangster con una quantità di morti ammazzati, è grigio, quasi algido, manca proprio di carne e di sangue. Se il regista Scott Cooper voleva ammannirci un docudrama televisivo ci è riuscito perfettamente, ma non credo fossero quelle le sue intenzioni. E chi ha avuto il coraggio di paragonarlo a Scorsese farebbe meglio ad andare a nascondersi.
Questo contenuto è bloccato fino all'accettazione della privacy e cookie policyBuona la prova di Johnny Depp: dietro gli inquietanti occhi di ghiaccio e sotto gli strati di trucco, che i selezionatori degli Oscar di sicuro ameranno, è terrorizzante quanto doveva esserlo il Whitey originale. Ottimo l’australiano Joel Edgerton nel ruolo dello sbruffone, a tratti insopportabile Connelly. Fanno il loro dovere Kevin Bacon (l’incapace capo dell’FBI di Boston) e Benedict Cumberbatch (il fratello senatore, chissà perché trattato coi guanti bianchi dalla sceneggiatura). Eccellenti James Plemons (l’autista-picchiatore di Jimmy) e Peter Sarsgaard (in un ruolo minuscolo ma recitato da grande attore). Per qualche ignota ragione non sono citati sopra il titolo quelli che fanno al meglio il loro sporco lavoro: Rory Cochrane (Steve Flemmi, il braccio destro di Whitey) e W. Earl Brown (il suo “killer di fiducia” John Martorano) che rifà pari pari il ruolo, che personalmente ho amato moltissimo, da lui interpretato nella serie DEADWOOD.
Sembra che Ben Affleck sia stato per qualche anno interessato al progetto, per poi abbandonarlo. Peccato, sono certa che da bostoniano doc e ottimo regista di THE TOWN e GONE BABY GONE, un action e un poliziesco entrambi ambientati a Boston Sud, da questo soggetto avrebbe saputo fare un film molto migliore.
M. P.