Un attesissimo ritorno, quello di Stuart Argabright come Black Rain, un progetto con Shinichi Shimokawa (dopo Death Comet Crew) del quale la londinese Blackest Ever Black ha svelato il nucleo d’acciaio e ruggine due anni fa.
Con Now I’m Just A Number: Soundtracks 1994-1995 (raccolta di lavori passati e di tracce contenute nella colonna sonora di “Johnny Mnemonic”, che, oltre ad essere un film-statuto degli anni Novanta, è anche e soprattutto un libro di William Gibson), i faretti impolverati dell’industrial legato a situazioni da post-apocalisse e desertificazione umana sono tornati a puntare sul duo newyorkese e sui suoi antibiotici sonori.
Dopo anni di suoni provenienti da macchine sferraglianti abbandonate in un universo desolato e immerso nella nebbia, dove le nuvole lasciano ancora intravedere un lontanissimo sintomo di luce chiamato sole, Dark Pool scava a fondo nei cunicoli della città abbandonata per portare in superficie figure fumose e distorte, dotate di nuova vita. Con l’intro e le prime due tracce (“Profusion” e “Watering Hole”), tra voci robotiche e canti solitari, abbiamo subito a che fare con queste presenze enigmatiche, dotate in “Endourban” di un cuore che pulsa come techno fredda e sintetica (con le migliori influenze à la Vatican Shadow) e bagnate di frenesia contemporanea in “Data River”. Atmosfere e presagi che gravano pesantissimi sulla schiena, tra lamentele drone e sintetizzatori impazziti, nelle trasformazioni genetiche di “Xibalba Road Metaphor”, mentre il beat metallico, bianco e asettico di “Protoplasm” diffonde germi da una sala operatoria vuota che echeggia di anni di lattice e bisturi. “Profusion II” completa il sabba biomeccanico degli inizi e “Who Will Save The Tiger?” chiude le porte con un noise minimal che martella e rimbomba nella testa e lascia un gusto improvviso e sconosciuto in bocca.
Dark Pool costruisce lo skyline sfaccettato di una metropoli vuota ma brulicante di impulsi sonori, tra connessioni, incastri e stratificazioni a più livelli di acciaio stridente e colate di cemento. Se tra cinquant’anni qualche testa calda sboccerà con l’idea di fare un remake di “Akira” (Katsuhiro Ōtomo, 1988), spero si ricordi di questo disco.
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