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Nell'ultimo film dedicato alla serie all'agente 007 (Skyfall) il personaggio di Javier Bardem si rivolgeva a James Bond, ricordandogli che oggigiorno le guerre non si vincono sul campo di battaglia ma sulla tastiera di un computer. Un inserto minimale e in fondo anche contraddittorio rispetto all'estetica di un prodotto che fa dello scontro fisico e dell'azione tout court i suoi cavalli di battaglia. Eppure l'eccezionalità di quelle parole risuona per tutta la storia, riflettendo in modo drammatico il senso di stanchezza dell'eroe tagliato fuori da una realtà che non riesce più a controllare. Con bel altre conseguenze, tale dimensione di incompletezza e di smarrimento ritorna nel nuovo film di Michael Mann, "Blackhat", titolo gergale che rimanda all’utilizzo illecito delle capacità informatiche da parte di Nick Hathaway (il Chris Hemsworth di "Thor" e di "Rush"), hacker reclutato da Cia e Fbi nel tentativo di sgominare l’organizzazione criminale che sfruttando le risorse della rete mette a rischio la sicurezza delle nazioni. Lo scenario presentato da Mann però, non si ferma alla semplice lotta tra bene e male, pur presente in molte parti del film con la consueta dose di sparatorie e altre belligeranze, ma si incunea all’interno di un discorso filosofico ed esistenziale, che contiene i motivi che da sempre agitano le storie del regista americano; come lo sono il tema dell’amicizia virile e degli amori impossibili, rappresentati rispettivamente dal legame fraterno tra Nick e Dawai, ufficiale cinese incaricato di collaborare con gli Stati Uniti nella risoluzione del caso, e dal rapporto sentimentale che il protagonista instaura con la bella Taing Wei (Lust: Caution), sorella dell’amico. Ma soprattutto “Blackhat” ripropone una visione del mondo oscura e minacciosa, che nei film di Mann produce da una parte, la struggente elegia di un paradiso perduto e invano ricercato nella sfera delle cose umane (i soldi, gli affetti, il gioco di squadra), dall’altra, un’esplosione di rabbia folle e insensata che si abbatte sui protagonisti con un tasso di mortalità paragonabile a quella di un altro campione di pessimismo cinematografico come William Friedkin. A differenza di altre volte gli esiti funzionano a fasi alterne: pregevoli quando il film si apre sulla realtà, interrogandola con scene come quella in cui, appena uscito di prigione Nick, alla maniera del John Dillinger di “Nemico Pubblico”, si ferma a guardare lo spazio che gli sta davanti, ricavandone un senso di vuoto esistenziale. Come pure nella pulsione autodistruttiva derivata dall'infinita reiterazione degli scontri a fuoco, come sempre dilatati oltre le regole del genere e sintonizzati sull'adreanalina dei personaggi. Insufficienti quando si tratta di dare coerenza ai contenuti con una forma, che appare didascalica nei dialoghi, quanto inadeguata nella linerita di una progressione narrativa che sconfessa le caratteristiche di irrazionale di cui il film si fa portatore. Superiore alla media dei film in circolazione, "Blackhat" non è il miglior film di Michael Mann.
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