La verità non è assoluta e sicuramente non la si troverà nelle righe che vi apprestate a leggere, ma ragionando un po’ su quanto appena descritto, sono giunto alla conclusione che esiste un tipo di pubblico che si può etichettare come “cinefilo Focus”. Ed ora eccovi come riconoscere gli individui che appartengo a questa specie.
Cinefilo Focus: termine che indica persona amante del cinema ma non della sua storia o delle attività ad esso connesso. Caratteristica di tale individuo risiede nella lettura mensile della rivista da cui egli prende il nome (o un’altra testata sempre sullo stile “scienze for dummies”), la quale diviene un dizionario con cui interpretare il linguaggio cinematografico. Egli divide i generi cinematografici in due categorie principali. La prima definita “reale” a cui appartengono tutte quelle pellicole in cui la fantasia regna sovrana e da cui è bandito ogni barlume di serietà (es. The Avengers, Tron, Pacific Rim, Deep Impact), l’importante è che siano divertenti. La seconda categoria è definita “fantastica” e comprende tutti quei titoli costellati di personaggi sprovvisti di poteri speciali e magari con un barlume di serietà presente nello script (es. Heat, Contact, Donnie Darko), senza alcuna traccia di battute “cazzone”. Mentre tutto quello assimilabile nella prima categoria viene accettato a prescindere dalla plausibilità del tutto, finiscono nella seconda tutti quei film che commettono qualche inesattezza formale, anche se questa è necessaria a rendere comprensibile a chiunque quello che sta accadendo sullo schermo (es. si utilizzano termini sbagliati per le azioni che si stanno vedendo, o le teorie quantistiche sono esposte in modo poco corretto, oppure inquadrano uno schermo di computer dove si vede word ma viene usato come browser). Per riconoscerlo, qual ora non foste sicuri di chi avete davanti, durante un aperitivo o evento mondano iniziate a parlare di teorie quantistiche, esso prima o poi inizierà a parlarvi di “Interstellar” demolendone le teorie alla base della trama (noncurante che Nolan non ha girato un documentario). Potete anche provare la deriva filosofica con “2001 Odissea nello spazio”, ma anche se il capolavoro di Kubrick è per lui un must vedrete che nel giro di poco tempo glisserà l’argomento per non fare figuracce.
Ora se appartenete alla categoria sopra descritta è inutile che andiate a vedere “Blackhat” perché non lo meritate, davvero, sono molto serio mentre scrivo questo, voi non meritate l’ultima fatica di Michael Mann ed il motivo è molto semplice: non siete in grado di apprezzarlo! La lettura per voi termina qui.
“Blackhat” vede protagonista Hataway (hacker costretto a collaborare con la polizia investigativa federale in cambio di una diminuzione di pena), lavorare assieme alle forze dell’ordine cinesi (lo so sembra Danko versione 2.0 ma non lo è) per fermare un altro pirata informatico (il Blackhat del titolo), che ha dapprima fatto esplodere il reattore di una centrale nucleare e poi alterato le borse commerciali internazionali. Hataway si lancerà in una corsa contro il tempo spostandosi dall’America fino a Giacarta, per identificare e fermare il pirata informatico prima che questo commetta danni irreparabili. In grado di reinterpretare i generi che lui stesso ha contribuito a rendere popolari, Michael Mann è un regista sovversivo e anarchico, il suo cinema dapprima descrive le coordinate classiche necessarie del genere per poi scardinarle dall’interno. Con “Blackhat” prende il genere thriller a sfondo informatico e lo ridisegna dall’interno, lentamente, molto lentamente almeno inizialmente, per poi aumentare vorticosamente la velocità e proprio come fosse una centrifuga, tutti i pezzi inutili iniziano a staccarsi dal corpo del suo cinema (proprio come i pezzi della turbina del reattore atomico ad inizio film). Quello che rimane ha un sapore conosciuto ma è in grado di regalare l’eccitazione della “prima visione” (il corpo cinema è dapprima hacker ago e poi riprogrammato), quasi come ogni sua pellicola fosse il nostro primo bacio. Mann apre questo suo ultimo lavoro in modo anomalo, con vorticose riprese all’interno dei transistor di un microprocessore, qualcosa dal sapore drasticamente retro, non solo nella messinscena, ma anche nella qualità realizzativa, che inevitabilmente indispettisce, ma questa sequenza sempre ossessiva nella sua ripetizione a velocità ogni volta maggiore è la stele di Rosetta con cui tradurre “Blackhat”, un film in cui il tempo è importantissimo al punto da non potersi permettere il fuoricampo. Molto più che in “Miami Vice“, l’azione si svolge in “tempo reale”, davanti ai nostri occhi, essa è immediata e “tangibile”, travolge tutto nelle sue traiettorie verticali, i raccordi di montaggio sono senza respiro e le sequenze si susseguono tra loro ad un ritmo tale da provocare vertigini, il tempo si comprime sempre più e non resta che alla mente aggiungere il timing non impresso nei fotogrammi, l’azione fuoricampo.
Così questa frenetica corsa di corpi, che aumentano e si avvicinano sempre di più con lo scorrere del tempo, sembra urlare a squarciagola la necessità del contatto fisico, del ritorno alla realtà dell’identità, la quale deve essere tangibile per sperare nell’evoluzione. L’uomo 2.0, quello sempre connesso è destinato ad indebolirsi, perché privato del contatto umano ha ceduto la propria anima alla rete per sempre, un vero patto col diavolo per avere un doppio virtuale necessario per esistere al di là del tempo. Ma ancora una volta tutto riparte da un uomo e una donna che liberati dal peso del sistema/passato, finalmente sono vivi e sfuggono agli sguardi della società che sorveglia tutto attraverso un monitor. L’uomo nell’era delle connessioni ha completamente perso il privato, l’unica maniera per riappropriarsene è abbattere il suo doppio digitale e tornare alla realtà. Quella stessa realtà in cui può ancora vivere l’emozione e che non c’è una seconda possibilità quando il sangue inizia a scorrere.