BLANCANIEVES, dalla Spagna un film muto alla The Artist, però meglio

Creato il 28 ottobre 2013 da Luigilocatelli

Blancanieves, regia di Pablo Berger. Con Maribel Verdù, Angela Molina, Macarena Garcia, Daniel Gimenez Cacho, Pere Ponce. Presentato al TFF nella sezione Festa mobile (non in concorso).
Le premesse non erano delle migliori: un’altra versione di Biancaneve, un altro film muto sulla scia di The Artist. Invece Blancanieves non solo non è una fotocopia, non solo evita le trappole del formalismo e della leziosaggine, ma (soprattutto nella seconda parte) diventa ottimo esempio di cinema iberico-fantastico, con incursioni in Buñuel, Fellini, Ted Browning. Voto 7 e mezzoDiciamolo, le premesse non erano incoraggianti: un film muto in bianco e nero, e uno pensa subito che arrivi troppo tardi a sfruttare la scia di The Artist. Impressione rafforzata dal fatto che la Spagna lo ha scelto come proprio rappresentante di bandiera nella lunga corsa all’Oscar per il miglior film in lingua straniera (ben 81 titoli iscritti alla gara, tra cui il nostro Cesare deve morire: sarà una maratona), fors’anche per sfruttare proprio l’effetto The Artist. Non bastasse, è la terza cineversione – la terza! – in meno di un anno di Biancaneve. Poi lo vai a vedere e scopri che Blancanieves è meglio di come lo immaginavi, molto meglio anche del troppo premiato film di Hazanavicius, assai più sottile nell’usare e manipolare i codici, i linguaggi, i modi, gli stilemi del cinema pre-sonoro. Se Blancanieves è abbastanza convenzionale nella prima parte, nella seconda prende decisamente quota e la parte finale è piena non solo di invenzioni narrative e visive, ma è un sontuoso omaggio al surrealismo iberico, a certo cinema fantastico, al melodramma, a quel peculiare mito spagnolo che è la corrida con il mondo che le ruota intorno. La favola dei Grimm viene trasposta ina una Spagna abbastanza approssimativamente disegnata di inizio Novecento, tra plazas de toros, danzatrici di flamenco, torbide avventuriere, hidalgos tutti d’un pezzo. Il re dei toreador Antonio Villalta scende nell’arena di Siviglia, la madre di tutte le arene, ma abbagliato sciaguratamente da un fotografo finisce con l’essere incornato dal toro Lucifero. Perderà l’uso di gambe e braccia, e proprio quella notte nello stesso ospedale in cui lui è ricoverato l’adorata moglie morirà nel dare alla luce una bambina.
Il pover’uomo – solo, tetraplegico, con neonata a carico – si lascia circuire dall’infermiera Encarna; la sposerà, la manterrà come una regina nella sua magione, mentre la bimba cresce lontana. Quando anni dopo Carmen, l’infanta, arriverà in villa, la matrigna-strega la tratterà come una schiava. Seguono angherie e sofferenze inenarrabili. Diventata grande e bella, la povera Carmen rischia di morire dopo un tentativo di stupro: a salvarla è una compagnia di nani-toreri che col loro carrozzone girano la provincia e che la adotteranno e le daranno il nome di Biancaneve. Da qusto momento il film decolla, si libera dale strettoie del formalismo e del carinismo e si inoltra con decisione nel territorio del fantastico e del mitologico. Quella dei nani-matador è una bellissima trovata narrativa, le scene delle loro buffe corride, delle loro parodie nelle piazze di poveri paesi sono un incanto, semplicemente. Biancaneve coltiverà, grazie a quei nuovi amici che l’adorano, la sua vocazione di torera, e ben presto diventerà una leggenda come il padre. Potete immaginare gli sviluppi e anche il finale, se appena vi ricordate la favola dei fratelli Grimm. Il rischio di un film muto oggi – come abbiamo visto in The Artist – è quello del manierismo, del decorativismo, della leziosaggine, dell’operina tutta esteriore, dell’esercizio di stile bastevole a se stesso. Il rischio del film tè e pasticcini per signore bon ton. Ma Pablo Berger evita abilmente la trappola, riusa la storia di Biancaneve per citare filologicamente certo melodramma del cinema pre-sonoro (ricalco evidente soprattutto nel personaggio della governante Angela Molina), soprattutto incrocia certi surrealismi alla Buñuel e alla Dalí, certo cinema freak-circense alla Ted Browning oltre che, naturalmente, Fellini, alla mitologia così profondamente spagnola della corrida e dei matador, del sangue e dell’arena. Il percorso di Carmen/Biancaneve è quella di un’eroina, anzi di una santa e di una martire, e le scene della gente che porta in processione il suo corpo è quanto di più intenso, e intensamente iberico, ci abbia dato il cinema spagnolo negli ultimi anni. A Berger riesce quello che non è riuscito ad Alex De La Iglesia in Ballata dell’odio e dell’amore. Senza clangore, senza fanfare, senza gli eccessi di De La Iglesia, il regista di Blancanieves realizza un film notevole, e almeno una scena, l’ultima, grandissima.


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