Se i Fuck Buttons hanno cercato di plasmare la loro musica in modo versatile e multidirezionale, indirizzandosi a diversi target di pubblico e adagiandosi su strade più soft, mettendo da parte sperimentazioni più estreme (ma conquistando un discreto vertice), Benjamin John Power sembrerebbe invece volersi calare in antri più oscuri e freddi con questo disco su Sacred Bones Records, un’etichetta che conosciamo bene, capace solitamente di attirare come il miele le api tutta una serie di progetti, giovani o meno, che scendono a fondo, in un’apnea buia e creativa dalla quale riemergono con lavori gravi, concreti, artigianali, in un iter costruttivo dove ci si sporca parecchio le mani.
Power si addentra in un sentiero di rumori e distorsioni che però abbandona in più punti, prediligendo una composizione a strati dove ritmiche carnali, voci profonde, beat pulsanti si accavallano freneticamente, e quel noise rugoso che doveva arricchire il tutto rimane come un velo di sudore inconsistente appiccicato sul mucchio.
Dall’intro “Loam” si percepisce la presenza di una perla nera in ogni pezzo, qualcosa che corrompe con dissolutezza delle basi regolari, rese accattivanti da qualche guizzo electro-pop e glitch da Nintendo anni Novanta: vocals distorte si arroccano su queste musichette ironiche, in un ammasso artificiale che stride bene con l’artwork, ma l’insieme dà un senso di superficialità e finzione che rimane irrisolto. “Atrophies” gioca con atmosfere più gaie e colorate, estremamente pompate e sintetiche come gonfiabili a un party d’élite in piscina, “Double Cross” e “Cruel Sport” proseguono la festa, mentre “Detritus” si pone in chiusura come l’unico pezzo che s’increspa e si macchia di fango, anche se l’approccio metalmeccanico in apertura e la boccata d’aria salvifica alla fine spazzano via ogni dubbio sull’album, una metamorfosi di carne leggera e limpida che non approfondisce nessuna visione in particolare.
Se con l’etichetta di Brooklyn eravamo abituati a cagare sangue, qui ci siamo già lavati con la colonia.
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