Terza
tappa del blogtour dedicato al nuovo romanzo di Francesca Diotallevi
– da ieri in libreria – con la risposta alla domanda più
frequente. Com'è? Scopriamolo insieme, ringraziando ancora una volta
Francesca, per la sempre ottima compagnia e la disponibilità, e i
responsabili di questa nuova collana Mondadori. In fondo al post
trovate un riassunto con le tappe precedenti e future – pronti per
l'ultima, dopodomani, in cui potrete provare a vincere una copia del
libro? - e per qualsiasi cosa, ad esempio quelle che per la fretta di
stamattina magari mancano, controllate sui blog in cui Amedeo, je
t'aime è già approdato nei giorni scorsi.
Non
sono così coraggiosa. Non lo sono mai stata, nemmeno quando danzavo
sull'abisso tentando di sfiorare le stelle.
Titolo:
Amedeo, je t'aime
Autrice:
Francesca Diotallevi
Editore:
Mondadori “ElectaStorie”
Numero
di pagine: 247
Prezzo:
€ 18,90
Sinossi:
Parigi,
1917. Jeanne Hébuterne ha solo diciannove anni quando, a una festa
di Carnevale, incontra il pittore Amedeo Modigliani.
SoprannominatoMaudit,
maledetto, Modigliani è conosciuto nel quartiere di Montparnasse per
lo stile di vita dissoluto e il carattere impetuoso, oltre che per i
malinconici ritratti dagli occhi privi di pupille che nessuno vuole
comprare. Lei, timida aspirante pittrice con le ali tarpate da una
rigida famiglia cattolica, non può fare a meno di sentirsi
finalmente attratta da quest'uomo bello e povero, che sembra vivere
di sogni apparentemente irrealizzabili e affoga dolori e frustrazioni
nell'alcol e nella droga. Per lui lascia ogni cosa, mettendo da parte
le proprie aspirazioni, e si trasforma in una compagna fedele e
devota, pronta a seguirlo ovunque, come un'ombra, anche oltre la
soglia del nulla. Struggente e tormentata, la loro storia scardinerà
ogni convenzione, indifferente a regole e tabù, lasciandosi guidare
dall'unica legge a cui non ci si può sottrarre: quella del cuore.
Amore e morte si mescolano, in questo romanzo, alla passione che
anima il cuore di un artista, al desiderio di riuscire ad afferrare
una scintilla di infinito.
La recensione
“Sai,
non è per forza un male. C'era un artista che non li disegnava
affatto, pensa te. Nel momento di dipingerli, con i colori ad
olio tratteggiava due mandorle vagamente oblique, così, e le
riempiva con un solo tocco del pennello. Sono lo specchio dell'anima,
qualcosa di troppo privato, di troppo nascosto, per essere catturata
su una tela sessanta per novanta. Ci starebbere stretta, no?, l'anima
in un foglio”, e così dicendo mi faceva un occhiolino, come se
quella storia la conoscessimo solo noi, e se ne tornava al suo
giornale spiegazzato, al di là della cattedra. Le parole che un
professore di Arte delle scuole medie rivolgeva a un ragazzino bravo
e insicuro che – quando si spiegava, a lezione, come realizzare un ritratto –
disegnava volti di donna, soprattutto, e li strappava in due, in
cento parti. Avevano sempre un frangia lunga, una ciocca strategica
per mascherare lo strabismo di venere, un'ombra per nascondere parte
di uno sguardo fuori dall'asse. Occhi disuguali che mi tormentavano:
uno grande e l'altro piccolo, uno socchiuso e l'altro spalancato e,
quando erano finalmente a posto, erano le pupille a tradirli.
Litigiose e ribelli, impercettibilmente diverse. Gli occhi erano un
dettaglio arduo da mettere a punto – anche se chi disegna più e
meglio di me sa bene che in realtà non c'è cosa più difficile, da
fare, di un paio di mani; ma quel giorno ci davamo ai primi piani,
quindi meglio non crucciarsi d'altro – e, ogni volta, mi
sfuggivano. Perché erano di persone immaginarie, che non conoscevo,
e di cui dunque non sapevo come fosse fatto il profondo. Quella,
almeno, la scusa, nel momento in cui seppi dell'esistenza
del pittore – toscano di natali, ma emigrato a Parigi nella
stagione delle Avanguardie – che riempiva le pupille delle sue muse
di nero densissimo. Erano gli anni in cui guardavo e riguardavo Ethan
Hawke ritrarre una Paltrow senza veli in Paradiso Perduto, il
mio Dickens postmoderno preferito, quelli in cui – per la prima
volta – mi avvicinai, affascinato, ai colli da cigno e agli occhi
vuoti di un uomo chiamato Amedeo Modigliani. Per gli amici e i
nemici, Modì: è così, infatti, che si legge l'aggettivo francese
maudit, maledetto. Per Jeanne Hébuterne, la giovane
artista che visse e morì in nome suo, sarà invece l'amore di una
vita. Amedeo, je t'aime –
titolo caloroso, dichiarazione spassionata – parla di arte, una
Parigi negli anni della guerra e della pace, un rapporto di teste,
sessi e viscere che ancora sconvolge tanto che è estremo. Francesca Diotallevi, l'autrice che a tutti ho consigliato
almeno in un'occasione, dopo un esordio che veramente non si scorda,
ritorna – attesissima – con una storia nuova.
Ma se qualcuno vi dicesse di
volere riscrivere Romeo e Giulietta,
o di volervi raccontare da capo i quattro atti de La
Bohème? Tanto, infatti, a me
era familiare la tragedia di un pittore e della sua musa fedele. Ho sentito
parlare di loro al corso di Storia dell'Arte Contemporanea – di
loro, al plurale, perché se parli di lui non possono non spiegarti
chi sia lei, che è ovunque – e avevo potuto dargli un volto in I
colori dell'anima, biopic ben
confezionato, ma incentrato soprattutto sulla rivalita con Picasso, in
cui Modigliani era stato un eccellente Andy Garcia. Il
melodramma di Jeanne e Amedeo per me era il più toccante in
assoluto, essendo l'unico che – quasi cent'anni fa – si consumò davvero. All'inizio, rimuginando tra me, mi chiedevo cosa
potesse darmi una lettura di cui purtroppo conoscevo inizio e fine.
Soprattutto, come essere all'altezza di un esordio perfetto – passato in sordina, rispetto a un secondo romanzo che già adesso
è maggiormente pubblicizzato, con la fiducia di un nuovo editore e
il sostegno di chi ci credeva ancora prima di leggerlo – che solo
io e Francesca, che l'ha scritto, sappiamo quanto ho amato? E invece. Le
stanze buie e Amedeo,
je t'aime – il primo un lungo racconto gotico narrato da un lui; il secondo breve
rievocazione di un amore da parte della custode di un gigante fragile – sono storie diverse, imparagonabili, anche se
sono umano – e pazzo di Vittorio Fubini e Lucilla Flores – e i
pensieri, come i confronti, corrono e fanno il loro giro. In realtà
diverse non sono, non troppo, se a raccontartele è una giovane penna
che hai lasciato bravissima e hai orgogliosamente ritrovato
bravissima. Con Francesca, due anni fa, è nata un'amicizia a
distanza, che mai ha minacciato di offuscare la lucidità del mio
giudizio: semplicemente, impossibile che si smentissime; che facesse
marcia indietro.
E
sapeste quanto mi fa strano sapere che la stessa persona con cui, in
chat, ti è capitato di parlare del più e del meno, come va?, come
stai?, sia quella che prende due leggende della pittura e, con
credibilità naturale, dà loro voce. Raccontando a modo suo una
storia che già pensavi di sapere. Ho pensato di saperla al primo, al
quinto, al decimo capitolo, ma non davanti a un epilogo annunciato che,
nonostante arrivi previsto in precedenza, come coi cicloni colti a
mezz'aria dalle immagini satellitari, sa misteriosamente commuovere. Novantacinque anni dopo di loro. E svariate lezioni
universitarie, un lungometraggio e la mia tipica curiosità dopo. Con
Francesca Diotallevi ci scambiate due parole sui social, magari la
incrociate mentre lascia un commento qui sul blog; ecco quello che
rapisce nella capacità che ha una ragazza di appena trent'anni di
inviarti una faccina sorridente, mentre nel frattempo, su un foglio
di Word aperto sul suo portatile, veste – senza che le stiano
larghi o stretti, senza che su di lei appaiano polverosi – abiti
d'altre epoche. L'autrice non è come l'artista che ci descrive. Con
gli scenari volutamente piatti e, in primo piano, volti dai tratti
deformati – i colli lunghi, i nasi appuntiti, i vestiti poco
dettagliati. Francesca dipinge, ma con le parole, e stende sfondi
vivissimi, tridimensionali; aggiunge dettagli su dettagli a
personaggi modulati, complessi e amabili quando - gelosi, testardi,
incerti - furono, al contrario, esseri umani difficili. Nelle loro mansarde spoglie:
luoghi frequentati da topi e bohèmien, non adatti ad allevare una
figlia. Nei nodi e nelle pieghe. Nelle rare giornate in cui il bene
reciproco, poi, sciolse i grovigli. La mia memoria fotografica mi
permetterà di portare con me un'immagine, scattata con un battito di
ciglia. Il dettaglio di un bottiglia di brandy vuota. Sul fondo, una
sigaretta schiacciata tra pollice e indice, lasciata lì ad
affogare. Nell'imboccatura, a dondolare, un pennello ancora sporco.
In secondo piano, invece, fuori fuoco, una porta che si apre e si
chiude. Una porta che sbatte sulla scia di un mito. Da qualche parte,
c'è una donna che muta guarda, paziente sopporta e fedele aspetta.
Modì, indossando la sua sciarpa rossa e il suo cappello di feltro, il mare dentro, ha lasciato dietro di sé odore di tempere,
arance amare e cocci di cuori. Lui va. E chi
resta resta. In Jeanne, un po' la sindrome della moglie del soldato.
Gli artisti delle Avanguardie, infatti, prendevano in prestito il
nome dal reparto armato che precedeva, in campo nemico, il resto
dell'esercito: erano soldati in esplorazione, loro, e ci sono soldati che
non tornano, a volte, e compagne pietrificata davanti a una finestra. I dipinti
di Amedeo e il romanzo di Francesca hanno gli stessi identici occhi. Occhi stretti e
umidi. Senza segreti, quando si parla di Jeanne.
L'unica creatura
dallo sguardo azzurro mare, in un mondo imperscrutabile di orbite insonni.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Sia – My Love
11/9TAPPA
#1 ‹‹ Reading
is believing ››
Presentazione
romanzo14/9TAPPA
#2 ‹‹ Un
libro per amico ››
Incipit
+ estratto16/9TAPPA
#3 ‹‹ Diario
di una dipendenza ››
Recensione18/9TAPPA
#4 ‹‹ Il
libro che pulsa ››
Intervista
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